“Se io fossi il falegname, Pantani sarebbe l’artista”. È questo uno dei passaggi più significativi della lettera scritta da Lance Armstrong in occasione del decennale della morte di Marco Pantani. Un’artista del ciclismo, l’artigiano della bicicletta distante migliaia di chilometri da quella multinazionale pragmatica ed autoritaria che rispondeva al nome di Armstrong. Il 13 luglio del 2000 il Tour de France li ha messi l’uno dinanzi all’altro in una sfida controversa che ha segnato il ciclismo del nuovo millennio. Da una parte il Pirata, l’ultimo figlio dei grandi eroi del passato, dall’altra Armstrong, il “boss”, la cupola di un sistema che da anni governava quel mondo fatto di menzogne e falsità.
“Ma quello lì è veramente l’Armstrong che è sbarcato sulla luna?!”. Pantani scherzava ma fino ad un certo punto. L’americano, dopo una prima parte di carriera dedicata alle classiche di un giorno, è tornato alla ribalta vincendo la Grande Boucle del 1999 dopo aver sconfitto un cancro al testicolo. Un autentico miracolo sportivo, anche se gli addetti ai lavori iniziavano a nutrire qualche dubbio su quelle straordinarie performance. Mentre Armstrong si imponeva sulle strade di Francia, Pantani se ne stava rinchiuso in casa, lontano da un mondo che lo stava pian piano scaricando. Il ricordo del 5 giugno a Madonna di Campiglio era ancora vivo, un’umiliazione troppo grande per l’orgoglio del Pirata.
Un anno dopo, il ciclismo mette l’uno contro l’altro Lance e Marco. È il primo Tour de France del nuovo millennio, Armstrong ha già messo tutti in riga al termine della nona tappa: dopo i quattro giorni in giallo di Alberto Elli, il capitano della US Postal (a proposito di multinazionali…) conquista il simbolo del primato ad Hautacam staccando di diversi minuti i rivali più pericolosi per il successo finale. Tra questi vi è anche Pantani, presentatosi al via del Tour dopo aver aiutato il compagno di squadra Stefano Garzelli ad imporsi al Giro d’Italia. La condizione fisica non è delle migliori, quella psicologica neanche a dirlo. La ferita di Campiglio fa fatica a rimarginarsi, il tunnel imboccato dal Pirata si fa sempre più buio, la cocaina inizia a diventare qualcosa in più di un semplice spettro. L’undicesima tappa parte da Carpentras e si conclude in cima al mitico Mont Ventoux, il “monte calvo” che sembra la luna.
All’inizio della salita, sotto un sole cocente ed un vento che ha impedito agli organizzatori di montare l’arco dell’ultimo chilometro e lo striscione d’arrivo, i corridori iniziano a darsi battaglia. In testa rimangono tutti i migliori: Armstrong e il grande rivale Ullrich, il duo Kelme Botero-Heras, Virenque e Beloki. Pantani fa fatica a seguire il ritmo, la pedalata è pesante, lontanissima da quella armonica e celestiale a cui ha abituato i suoi tifosi. Il Pirata si stacca quando all’arrivo mancano ancora 11 km; non appena la velocità del drappello di testa cala, Marco torna sotto per poi staccarsi nuovamente ad ogni affondo. In località Chalet Reynard, a sei chilometri dalla vetta, il paesaggio abbandona il fitto dominio di pini d’Aleppo ed abbraccia la luna. Una infinita pietraia accoglie i corridori e li proietta in una distesa lunare che termina in prossimità dell’Osservatorio meteorologico, posto beffardamente sulla cima del Ventoux. Non appena si sbarca sulla luna, Pantani reagisce. Col passare dei metri, la sagoma rosa minuta della Mercatone Uno si riporta sul gruppetto di testa. L’aggancio avviene ai meno cinque chilometri e mezzo, lì dove sull’asfalto è inciso in giallo il nome del Pirata, opera che porta la firma del fan club Pantani di Borello, in provincia di Cesena. A Marco bastano 500 metri ed un sorso d’acqua per tornare a vestire i panni del Pirata. Scatta una prima volta, solo Heras lo insegue. Fanno seguito altri tre allunghi annullati dal forte vento che spira sul “gigante della Provenza”. Al quinto e ultimo tentativo nel giro di un chilometro, Pantani fa il vuoto. L’Angelo della montagna ha ritrovato il suo paradiso, la danza sui pedali ha ripreso ad incantare. Qualche centinaia di metri più tardi, e dopo aver marcato Jan Ullrich per tutta la salita, Armstrong rompe gli indugi ed in un amen si riporta su Pantani. Da qui hanno inizio i due chilometri più intensi che la storia del ciclismo recente ricordi.
L’americano si porta alla ruota del Pirata e, non appena gli dà il cambio, sussurra: “plus vitesse!” (“più veloce”). Il volto di Marco inizia a dipingere una maschera di sofferenza, quello di Armstrong assume l’aspetto di un rullo compressore. Il campione perduto contro il nuovo padrone, il Mont Ventoux diventa il palcoscenico di un duello tra due destini incrociati, una “sfida colossale” come urla in telecronaca un raggiante Auro Bulbarelli. L’azione di Pantani torna a farsi affannosa, complice la condizione fisica non ottimale dovuta ai pochi giorni di corsa nelle gambe; Armstrong, al contrario, padroneggia tenendo la situazione sotto controllo.
In prossimità degli ultimi mille metri, l’americano prende qualche metro di vantaggio, Pantani sembra ad un passo dallo sprofondare. Un altro ghigno, la catena scende di un dente per un ultimo scatto e la ruota della Bianchi color celeste torna ad incollarsi alla Trek griffata US Postal. Marco è lì che soffre ma non cade, si affianca ad Armstrong. La prospettiva mette in risalto i due corridori l’uno di fianco all’altro: una montagna di muscoli e forza la maglia gialla, uno scricciolo d’uomo il Pirata vestito di rosa. All’ultima curva Marco sorpassa Armstrong che non reagisce, la vittoria va allo scalatore romagnolo. Giusto così, “tappa a te, maglia a me” come il signor ciclismo ha da sempre insegnato.
In seguito alla vittoria di Pantani, i rapporti tra i due degenerano. “Ho fatto vincere Marco, ero io il più forte sul Ventoux”, dichiara spavaldamente Armstrong. Il Pirata se la lega al dito e risponderà a modo suo tre giorni più tardi lungo la salita che porta a Courchevel. In quell’occasione, anche sua maestà Lance dovrà arrendersi. Sarà l’ultima vittoria nella vita di Marco, la più significativa.
Il cuore di Pantani contro l’arroganza di Armstrong. Col senno di poi, probabilmente, il ciclismo avrebbe fatto un’altra scelta. E Marco sarebbe ancora qui con noi.
Luca Pulsoni