APPUNTAMENTO CON LA STORIA. “IL CARNEVALE DI SANGUE DEL 1944…”

         di Mario Cantoresi

Nel 1944, nei cuori degli uomini e delle donne, vi era solo una cosa più forte della guerra: la voglia di vivere!

Ed era un istinto vitale talmente forte che annullava persino la paura del buio delle notti insonni e l’ansia di ciò che sarebbe potuto accadere durante le ore del giorno.

Eh sì… perché in quegli anni, se non si aveva il coraggio di sognare, era inutile anche vivere.

L’intera umanità era precipitata in un abisso di odio e di orrore senza fine e sembrava davvero che, prima o poi, ogni essere vivente ne sarebbe stato inghiottito.

Ogni cosa che accadeva era difficile da comprendere e da interpretare.

In Italia, ad esempio, dopo la caduta di Mussolini esistevano due nazioni: la Repubblica fascista di Salò e lo Stato monarchico dei Savoia che erano vergognosamente fuggiti a Salerno.

A dire il vero, dopo lo sbarco degli Alleati ad Anzio, molti italiani avevano creduto che l’incubo potesse avere fine da un momento all’altro ma era stata solo un’illusione.

Le truppe americane erano rimaste impantanate a Cassino e la ferocia nazista era diventata ancor più brutale ovunque: dall’Abruzzo sin fino alle regioni più a nord della Penisola.

Però, anche in questa situazione, il desiderio di voler vivere anche un solo giorno in più, la sete di poter godere di un alito di giovinezza prima che essa fosse bruciata dal tempo oppure da un colpo di fucile, facevano dimenticare ai più giovani anche la morte ed il terrore.

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“Cesareee, Cesare… e dai, non fare quella faccia, lo sai benissimo anche tu… martedì è Carnevale ed è da troppo tempo che noi non festeggiamo più nulla.

E dai Cesare… ti prego… diamoci da fare.

Martedì sera organizziamo una festa e magari invitiamo le ragazze del quartiere a ballare!!!

In fondo è solo per qualche ora… che male facciamo Cesare?

Di quale crimine potremmo mai essere accusati?

Quello di avere vent’anni forse?”

E si… è proprio vero, gli esseri umani sono imprevedibili e molto spesso, pur animati dalle migliori intenzioni, causano danni irrimediabili.

Fu così che Cesare si lasciò convincere dal suo amico e quel 15 febbraio del 1944 a Celano, in Vico Livenza, un angolo sotto le mura del centro storico che sembrava essere fuori dal tempo, in una casa nascosta come una buca in un fosso, un gruppo di ragazzi provarono a vivere le emozioni della loro età.

Qualcuno aveva persino trovato un vecchio grammofono e un disco suonava un “fox trot” molto di moda all’epoca.

Come dicevano le parole?

    “Sussurra il vento come quella sera

         vento d’aprile, di primavera,

    che il volto le sfiorava in un sospiro,

    mentre il suo labbro ripeteva “giuro”!

       Ma l’amore è un vento di follia

       che fugge come sei fuggita tu…”

Dio mio… quanto piaceva quella canzone a Giulia e quanto, ancor di più, piaceva lei a tutti i ragazzi che avevano la fortuna d’incrociare il suo sorriso.

Aveva fatto strage di cuori Giulia dagli occhi di smeraldo… ma purtroppo aveva colpito anche fra i militari tedeschi.

Fu sicuramente per questo motivo che Dieter quella sera bussò alla porta della casa di Cesare e, fra lo stupore ed il silenzio generale, chiese timidamente di essere accettato fra quelli che erano i suoi coetanei.

“Guten Abend… Buonasera… non aver paura di me… io no guerra, no guerra!

Ich bin so jung wie du… io giovane come voi… voglio solo ballare…”

Pochi interminabili secondi, Dieter per allontanare ogni dubbio slacciò il cinturone facendolo cadere sul pavimento, poi prese il suo fucile d’ordinanza e lo consegnò ad uno dei ragazzi.

“Io amico” – disse aprendo il suo volto ad un sorriso.

“Ma questa è una pazzia bella e buona”, obiettò Antonio.

“No, no!” – gli rispose qualcuno –

“Guardalo Antonio… è giovane proprio come noi ed è solo e lontano da casa.

Dai ragazzi, cosa ci costa lasciarlo divertire un po’ con noi stasera?”

Non fu neanche necessario attendere una risposta, il vecchio grammofono riprese a suonare le note della canzone interrotta e, com’era nella logica delle cose, durante la serata Giulia fu la ragazza più contesa di tutte.

Quello che accadde dopo quei balli ormai più nessuno potrà raccontarlo con esattezza.

Forse Dieter baciò Giulia e probabilmente qualcuno si sentì tradito da una promessa e da una donna.

Tutto accadde molto velocemente proprio mentre le parole della canzone dicevano:

              “Dille che l’amo,

          e il cuore mio m’implora.

      Dille ch’io tremo dalla gelosia

    Solo al pensiero che la baci tu…”

Fu un attimo: una lama colpì più volte il suo bersaglio e Dieter cadde a terra.

Il sangue che gli usciva dal cuore sembrava un fiume inarrestabile che scorreva fra le lacrime e le urla delle ragazze ed il terrore degli uomini.

Il corpo senza vita di Dieter fu portato via dalla casa ad abbandonato sulla scalinata di

San Francesco, sotto la torre dell’orologio.

Poi tutti fuggirono via: aspettavano coscienti e terrorizzati qualcosa che sapevano sarebbe stata terribile.

Poche ore dopo le grida altissime del Capitano che comandava la caserma della Wehrmacht di Celano furono udite anche dai sordi:

“Facciamo ciò per cui siamo nati, ciò per cui siamo stati addestrati.

Nessun prigioniero e nessuna pietà!

Con questo termina qui la nostra discussione, sono stato abbastanza chiaro Leutnant Müller?

Nom m’importa se Dieter era consapevole dell’idiozia che stava facendo, voglio una punizione giusta ed esemplare: un tedesco morto… 10 italiani subito al muro!”

La reazione scattò implacabile.

Gli abitanti del rione di San Ferrante vennero rastrellati ed interrogati ma nessuno di loro sapeva nulla.

I ragazzi che avevano partecipato alla festa era fuggiti tutti.

Uno di loro, però, prima di scappare, aveva raccontato tutto al padre ed ora l’uomo stava cercando di resistere ai pugni e alle botte dei tedeschi che gli chiedevano il nome dell’assassino.

“Pastore – disse l’uomo – “Pastore… mi chiamo Domenico e sono solo un pastore, abbiate pietà.”

Tanto bastò al Capitano tedesco per giungere ad una conclusione:

                     “JAWOHL!!!

Finalmente qualcuno ha confessato: È stato il Pastore della Chiesa di San Giovanni, Don Domenico… andate immediatamente a catturarlo!”

La ragione sa molte cose ma la follia ne sa una più grande.

I Nazisti catturano 10 celanesi più il povero Don Domenico Di Cola che era totalmente all’oscuro di tutto.

Furono ore di autentico terrore in attesa di una morte imminente ma il destino delle volte si diverte a riscrivere i finali delle storie.

Durante la notte la vicina Avezzano venne bombardata per la prima volta e le truppe tedesche ebbero altro da fare.

I prigionieri furono portati nelle Marche e destinati ad un campo di prigionia ma ebbero salva la vita.

Quasi un anno dopo, il 25 aprile del 1945, l’Italia fu liberata e cominciò la lenta ricostruzione delle nostre città.

I dieci celanesi con il loro anziano parroco fecero ritorno nella Marsica e poterono riabbracciare i loro cari.

Tanto tempo è passato da allora, in pochi oggi conoscono questa storia.

A me fu raccontata dall’Onorevole Giancarlo Cantelmi che mi pregò di non usare i veri nomi dei protagonisti se l’avessi mai scritta ed io ancora adesso la ritengo una richiesta giusta.

È perfettamente inutile alimentare qualsiasi strumentalizzazione, questa è una storia figlia della sua epoca e tale deve rimanere, a noi contemporanei spetta solo il ricordo e la pietà per chi non potè mai vivere in pace i suoi vent’anni.

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Il povero Dieter fu sepolto nel cimitero di Celano, quando i tedeschi abbandonarono la nostra città ebbero però cura di segnalare la sua tomba alle loro autorità.

Nei primi anni Sessanta i genitori del ragazzo grazie a quella segnalazione poterono riportare i suoi resti mortali in Germania.

Giulia dagli occhi di smeraldo invece si sposò subito dopo la fine del conflitto.

Conobbe un soldato di Roma e andò via con lui per sempre… nessuno la vide più tornare a Celano.

Don Domenico Di Cola, il Parroco della Collegia di San Giovanni, fu prima portato a Tagliacozzo e “interrogato” brutalmente dagli specialisti delle SS e poi trasferito con i suoi parrocchiani nelle Marche, a Centobuchi.

Monsignor Pio Marcello Bagnoli, il Vescovo dei Marsi, supplicare in ginocchio la sua liberazione davanti ad un allibito Tenente Colonnello delle SS, comandante in capo delle forze naziste nella Marsica.

L’alto ufficiale, fra un’incursione aerea americana e l’altra, non riuscì mai a spiegarsi come un Capitano della Wermacht avesse, anche per un solo istante, potuto pensare che un sacerdote ultra settantenne avesse ucciso un giovane soldato tedesco per motivi passionali!!!

La canzone che quella sera veniva fatta suonare sul vecchio grammofono era: “La mia canzone al vento” ed era cantata da Carlo Buti.

Il testo parlava di un tradimento d’amore… alla luce di ciò che accadde si può tranquillamente affermare che mai brano fu più profetico.

Gli altri ragazzi che organizzarono la festa continuarono le loro esistenze con alterne fortune, così come da sempre sono le cose della vita.

Fra di loro c’era anche l’innamorato tradito.

Sapete?

In fondo settant’anni non sono un grande intervallo di tempo, due o tre generazioni possono anche incontrarsi e chissà?

Forse qualcuno di noi lo ha anche conosciuto senza mai sapere nulla di quello che era accaduto… anche questo è stato il “Novecento”!

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