Barbato da Sulmona e il suo tempo. Incidenza di personaggi meno noti del Medioevo sui processi politico-culturali

di Gabriella Izzi Benedetti *

Barbato da Sulmona viene alla luce nel 1304, stesso anno di nascita di Francesco Petrarca di cui diverrà grande amico e con il quale corrisponderà a lungo. Il nome Barbato deriva da San Barbato vescovo di Benevento; non è dunque il cognome, poiché a quel tempo non era indispensabile; la sua identificazione si avvale della provenienza, Sulmona, oppure della discendenza, Barbato di Jacopo, essendo quello il nome paterno. Non sappiamo se Jacopo fu notaio come lo era il padre Berardo; sicuramente dal nonno Berardo verrà convogliato verso studi di giurisprudenza. L’intelligenza acuta unita all’interesse verso ogni forma di conoscenza faranno di lui, già dagli esordi, una figura di rilievo presso la corte dei d’Angiò.

Qualsivoglia personaggio, soprattutto se figura storica o letteraria meno in vista, richiede un’indagine sull’epoca e le dinamiche che di essa hanno segnato le specifiche, per meglio comprenderne la rilevanza in vari settori del vivere. In modo particolare l’epoca a cui appartiene Barbato è complessa sul piano storico-politico e in fase culturalmente evolutiva. In questo intreccio di situazioni il risveglio intellettuale acquista un particolare significato e, come la continuità amministrativa risulta piuttosto evidente nel passaggio dal dominio svevo all’angioino, una continuità nell’apertura verso forme seppur minori di autonomie cittadine, così vediamo che l’impronta fortemente intellettualistica impressa da Federico II di Svevia ha lasciato tracce, anche se il clima sta cambiando in una più attenta analisi di tipo classico.

Alla morte di Federico II di Svevia (1250), re e imperatore straordinario, non a caso definito stupor mundi per le grandi doti in ogni campo, parlava nove lingue, si circondò di tutte le menti più eccelse del tempo, indipendentemente da razza e religione, creò la scuola siciliana che precede il dolce Stil Novo e che crea una nuova formula poetica il sonetto, ma che è inviso al Papa, poiché siamo ancora all’interno delle fazioni guelfe e ghibelline, e Federico è Imperatore del Sacro Romano Impero, dunque antagonista papale, alla sua morte dicevo, l’impero svevo si sfascia. Il Papa Urbano IV, per mettere fine al regno svevo chiama a sostegno il fratello del re di Francia, Carlo d’Angiò che diverrà Carlo I, di comprovata fede guelfa, vassallo della Chiesa e, sia il figlio di Federico, Manfredi, che il nipote Corradino verranno sconfitti; il primo a Benevento nel ’66 e il suo corpo verrà gettato in mare perché nessuno possa farne un mito; il secondo a Tagliacozzo nel ‘68.

Corradino verrà giustiziato nella piazza del Mercato a Napoli. Con lui finisce la discendenza maschile degli Honestaufen, rimarrà solo quale erede la figlia di Manfredi, Costanza, sposata al re Alfonso d’Aragona. I d’Angiò dominano in molte parti d’Italia come Piemonte, Toscana, Emilia Romagna, sono re d’Ungheria, di Gerusalemme, hanno dunque un grande potere e devono difenderlo; per cui subissano di tasse i sudditi. In più sono arroganti. Il popolo aveva amato e ammirato gli Svevi e mal sopporta la situazione che in Sicilia precipita e basterà, nel 1282, una goccia, l’aver dei soldati mancato di rispetto a una donna siciliana per scatenare la rivolta che ricordiamo tutti sotto il nome dei Vespri siciliani. A quel punto Costanza figlia di Manfredi rivendica i diritti sulla Sicilia e si muove col marito alla sua riconquista. Inutilmente Carlo d’Angiò cercherà di arginarla. 20 anni di guerra senza esito; fra l’altro il figlio Carlo, che diverrà Carlo II, viene fatto prigioniero e lo è ancora quando il padre muore nel 1285; una situazione che mette in pericolo l’intero dominio angioino e per sicurezza i figli di lui Ludovico, Roberto e Raimondo vengono inviati in Provenza.

Infine dietro trattativa Carlo II torna in libertà iniziando un lungo patteggiamento con Alfonso d’Aragona che pretende quali ostaggi presso la propria corte i figli minori di Carlo Ludovico, Roberto e Raimondo. Il maggiore Carlo Martello rimarrà col padre. In un arco di 10 anni (1285-1295) che si concluderà con un’alleanza poiché Carlo II, ormai vedovo, sposerà la figlia di Alfonso e Costanza, i ragazzi ostaggi degli aragonesi, trattati principescamente, vengono istruiti dalle migliori menti del regno. Vivono presso i frati minori francescani, il gruppo degli spirituali; è questo un momento in cui i benedettini sono un po’ messi da parte avendo acquisito troppo potere, mentre la figura di Francesco d’Assisi con la sua spiritualità suggestiona e avvince. Importante per i ragazzi è la presenza di Pietro di Giovanni Olivi, il teologo, il personaggio di punta del gruppo degli spirituali, e dunque oltre a una istruzione approfondita in ogni ambito, l’influsso di questo intellettuale tra i più raffinati del tempo con il suo modello di francescanesimo esigente, influisce sulla loro formazione. E questo, specie riguardo a Roberto, avrà una vera importanza storica, poiché Ludovico deciderà di farsi frate, e alla morte del maggiore Carlo Martello, Roberto eredita il regno. Il padre, vassallo guelfo della Chiesa, chiede e ottiene l’imprimatur del Papa.

Alla morte di Carlo (1309), Roberto diviene un sovrano che stupisce per la sterminata cultura, deciso a espanderla, in certo senso prolungamento e competizione nei riguardi degli Svevi; un re con forte inclinazione verso le teorie del francescanesimo; non perde occasione per impartire sermoni, pare molto apprezzati. Questo aspetto è insolito in un re, ma lui ha un’esigenza spirituale che intreccia con attuazioni di tipo architettonico, artistico, giuridico. Farà costruire il bellissimo monastero di santa Chiara, chiamerà presso la corte artisti come Giotto, Simone Martini. Ambisce all’unificazione d’Italia sempre all’insegna di un riconoscimento dell’autorità papale. Ama la filosofia, la teologia di tipo aristotelico-tomistico, del resto è stato lui a proporre Tommaso d’Aquino per la santificazione. Dunque Roberto fonde differenti correnti di pensiero in un scambio di idee con intellettuali di altre regioni, e cerca di circondarsi di illustri personaggi di cultura del suo regno.

Si forma un gruppo intellettuale di stampo evoluto, e il suo prestigio diviene fondamento del regime. Ha un potere enorme: in Italia domina in aree sparse a macchia di leopardo. In qualità di capo della corrente guelfa molte città assieme ai territori circostanti chiedono protezione. Ovviamente è avversato dai ghibellini, in primis Dante Alighieri. A Firenze e parte della Toscana il suo dominio dura anni. Questo spiega i continui rapporti fra Napoli e il resto della penisola. Passerà anche lunghi periodi ad Avignone, residenza papale dal 1305. Una lontananza poco proficua per la funzione reale. Infatti alla sua morte amministrativamente il regno è florido, ma politicamente instabile. E non ha eredi maschi. Lascia però una situazione culturale invidiabile, con personaggi di primo piano fra i quali appunto Barbato da Sulmona, personalità tra le più stimate. Presso la corte emerge per cultura e acume politico; a 23 anni diviene notaio della tesoreria del figlio di Roberto e per questo si sposta a Firenze, a Siena dimostrando di tenere alto il prestigio angioino. Ottiene dal re la nomina di Giudice a vita riguardo ai contratti in Terra di lavoro, Abruzzo e Molise.

Fa parte e forse è il fulcro del gruppo intellettuale formato, tra gli altri, da Giovanni Barilli, Niccolò d’Alife, Tommaso de Ioha, Pietro di Monteforte, Luca di Penne. A Napoli vivevano anche alcuni toscani come l’Acciaiuoli e Cino da Pistoia, poiché la corte era tenuta in grande considerazione e tale era il prestigio di Roberto d’Angiò che quando Francesco Petrarca nel 1341 viene invitato a Roma per essere incoronato poeta in Campidoglio, vuole prima dirigersi a Napoli e farsi esaminare da Roberto a conferma di essere meritevole dell’onorificenza. Ed è allora che inizia la grande amicizia fra il Petrarca e Barbato, di cui restano tracce in epistole, egloghe, una serie di scritti che coprono 22 anni, fino alla morte di Barbato. Dopo pochi giorni dalla partenza il Petrarca gli scrive da Pisa con la breve notizia della laurea in Campidoglio, della quale lo stesso giorno scrive più ampiamente al re. Uno degli amici più cari al Petrarca, legato alla corte dei d’Angiò, era Dionigi da Borgo S. Sepolcro.

Dionigi fu probabilmente colui che influì sull’amicizia tra Petrarca e Barbato che, dopo la morte di Dionigi, divenne l’amico più saldo del Petrarca nell’Italia meridionale e il più sollecito divulgatore della sua fama. L’amicizia tra i due si rinsalda qualche anno più tardi, alla morte di Roberto d’Angiò nel 1343. Papa Clemente VI da Avignone dove soggiorna, attraverso il cardinale Colonna invia il Petrarca a Napoli. L’ascesa al trono di Napoli della giovanissima nipote di Roberto, Giovanna, ha creato non poca inquietudine. Petrarca che ha vissuto buona parte del suo tempo specie giovanile ad Avignone, è tra i personaggi più in vista della cultura ed è perfetto come ambasciatore del papa. A Napoli trova una situazione incerta, Giovanna non è ben vista, troppo giovane, 17 anni, e donna. Poi sposerà il cugino e le cose miglioreranno, ma non per molto. Il soggiorno del Petrarca dal 9 ottobre 1343 a metà dicembre, viene da lui stesso descritto nelle epistolae familiares. Di particolare interesse la narrazione riguardo a un vero e proprio tsunami che si abbatté sulla costa campana; maremoto e terremoto terribili. Il 25 novembre durante la notte la finestra della stanza del Petrarca è spalancata dal vento, il lume si spegne, la terra trema. Probabilmente ci fu uno smottamento sotto l’isola d’Ischia o di Stromboli e questo creò il formarsi di onde altissime, un muro d’acqua che si abbatté sulla costa.

Al mattino sono quasi per perdere la vita perché, andati verso la costa, il terreno si sbriciola sotto i loro piedi e a fatica riescono a tornare indietro mentre le onde altissime inghiottono tutte le navi come fossero fuscelli. Una sola si salva; sul punto di affondare improvvisamente arriva la bonaccia, il cielo si rasserena e la nave è salva. Petrarca scrive che mai più avrebbe messo piede su una nave, anche se gliel’avesse ordinato il Papa o fosse tornato dall’al di là suo padre. Ma il periodo napoletano fu anche piacevole per le escursioni alla ricerca dei luoghi descritti da Virgilio, i lunghi scambi intellettuali e il sollievo di conversazioni con un amico comune come il Barilli, e le gite a Baia e a Pozzuoli, importante per gli interessi archeologici del Petrarca. Parlare del Petrarca sembra superfluo, ma a parte la sua prodigiosa produzione letteraria, la sua straordinaria conoscenza del latino che ce lo consegna tra i più raffinati e colti scrittori di tutti i tempi, è con il Petrarca che ha inizio il grande moto spirituale e culturale che verrà definito umanesimo, moto che va oltre la tendenza al culto mitologico, a una visione ingenua di una Roma favolistica, spostandone la conoscenza in termini storici, critici, filologici.

Le testimonianze dei classici sono da lui capillarmente controllate e le attualizza in una conciliazione fra il patrimonio classico e quello cristiano. I valori della sapienza antica, della tradizione letteraria vengono svincolati e messi a confronto con le nuove formule filosofiche e scientifiche. È chiaro che la sua visione innovatrice influenzerà gli amici. Prima di partire da Avignone Petrarca incrocia il romano Cola di Rienzo, inviato presso la corte pontificia. É personaggio noto, innamorato della grandezza di Roma, uno studioso, notaio, oratore trascinante che mal sopportava la corruzione in Roma, la prepotenza dei nobili che approfittavano della mancanza del pontefice. Cola sognava una nuova grandezza per Roma, sperava di portarla alla libertà comunale e quando venne inviato presso la corte pontificia di Avignone, Clemente VI ascoltò il suo drammatico racconto sulla degradazione morale di Roma e lo nominò notaio della Camera Apostolica, visto che aveva grandi competenze in materia giuridica a amministrativa.

Una volta a Napoli il Petrarca, vedendo l’amico Barbato preoccupato per la precarietà della situazione politica, scrive a Cola di Rienzo divenuto tribuno e senatore di Roma, perché offrisse all’amico un impiego sicuro. Non si sbagliava nel ritenere poco sicuro il regno dei d’Angiò; di lì a poco Andrea, il marito della regina Giovanna venne assassinato e nel regno si visse un periodo di estrema incertezza. Purtroppo Cola di Rienzo che a fatica era riuscito a superare i contrasti con le grandi famiglie arroccate nei loro poteri, ed era riuscito in quanto il popolo era con lui, dopo un periodo di gestione saggia della cosa pubblica venne preso dal demone del potere, da mania di grandezza; ne approfittarono le grandi famiglie per aizzargli il popolo contro e venne ucciso nel 1347. Barbato che condivideva con Cola di Rienzo l’amore per il ritorno di Roma alle antiche glorie, aveva scritto per lui l’epistolaRomana res publica urbi Rome. Non sappiamo se gliela inviò, certo non fece a tempo a usufruire della sua protezione. Ma lo scritto ci è giunto e come sempre si nota una tendenza verso forme didascaliche, che lo rendono per noi piuttosto pedante. Tale però non doveva apparire ai contemporanei, compreso il Petrarca, che in due Metriche inviate all’amico lo sprona a completare un’opera che lo avrebbe rivelato come un novello Ovidio.

Certo possedeva una base di solidi studi incrementati dai contatti con le culture di Roma, Firenze e Avignone e i più vivaci fermenti degli uomini di una cultura nuova, poiché erano numerosi i fiorentini e anche i francesi che frequentavano la capitale angioina. Noi vediamo questi nostri antichi sempre in movimento, in viaggio. Affrontano percorsi lunghissimi. In realtà, a parte zone defilate, ed erano molte, esisteva una viabilità invidiabile per quei tempi. I romani, lo sappiamo, sono stati grandi costruttori di strade e nel Medioevo percorsi alternativi esistevano, molto ben amministrati come la via degli Abruzzi che da Firenze arrivava a Napoli, attraversando Spoleto e in particolare l’Abruzzo terra fortificata con molte torri d’avvistamento e castelli. C’era poi la via Francigena che partiva dalla Scozia, proseguiva per la Francia per approdare a Roma e proseguire fino a Brindisi per l’imbarco dei Crociati. Ma c’erano anche le vie della lana che collegavano tratti brevi e lunghi come quella da Bologna a Firenze o quella da Guardiagrele in Abruzzo fino a Prato. Per non parlare dei tratturi, strade enormi, che a parte i due periodi primavera e autunno dedicati alla transumanza delle greggi, erano ottime vie di comunicazione. E poi i nostri antichi erano capaci di sacrifici, avevano una tenuta che noi non possediamo più. Sicché il viaggio non è solo una questione di cavalieri erranti, è una forte spinta all’incontro e allo scambio, una forma di sopravvivenza e di evoluzione.

 La vicenda di Cola di Rienzo viene a chiarire come il ritorno alla classicità, alle glorie romane diveniva sempre più pressante in quell’atmosfera prodroma del Rinascimento. Delle 66 epistole che conserviamo del carteggio del Petrarca, 22 sono dirette a Barbato e alcune sono inserite tra le Metricae, altre tra le Epistolae familiares, o fra le Miscellanee. Ci sono poi delle egloghe che il Petrarca scambiò con Barbato e sono confluite nel Bucolicum carmen. In seguito Barbato conobbe Boccaccio e condivise con lui l’ideale umanistico. Divennero complici nel diffondere l’opera dell’amico aretino presso l’ambiente napoletano, insistendo perché quest’ultimo portasse a compimento il poema Africa. Petrarca accettò il consiglio ma non riuscì a completarla.  I ricercatori Vattasso e Weiss hanno recuperato anche tre lettere di Barbato al Petrarca. 6 o 7 invece sono andate perdute, ma sono in qualche modo testimoniate e una di esse inizia con le parole Extremuni Olimpiadis. Del soggiorno napoletano parlerà il Petrarca in una bellissima egloga Argus che invierà a Barbato nel 1347.

Intanto nel regno angioino le nuove nozze di Giovanna con Luigi di Taranto offrirono una certa stabilità soprattutto per l’opera del gran siniscalco Niccolò Acciaiuoli e il Petrarca scrisse all’Acciauoli una famosissima epistola che Barbato commentò, ed è il solo scritto di una certa ampiezza che ci è pervenuto. Lavoro di tipo scolastico ma non privo di ricercatezza. Si tratta di un documento dove la conoscenza diretta della situazione dimostra una presenza importante del Barbato presso la corte. In seguito Barbato si trasferisce stabilmente a Sulmona dove vive agiatamente con la famiglia, riceve personaggi illustri, conserva le stesse prerogative e gli stessi privilegi che aveva a corte, ma ciò che è più importante, crea un gruppo di allievi e amici intellettualmente vivace. Continuano gli scambi epistolari anche con il Boccaccio. Alla sua morte avvenuta nel 1363, Petrarca informato probabilmente da Quatrario allievo tra i più fidati, scrisse nella lettera di risposta parole bellissime, che dimostrano il grande affetto e la profonda ammirazione. Ciò che resta di particolarmente importante è il carteggio tra i due intellettuali, lontano da preziosismi letterari. Rivela un’amicizia autentica, verità di sentimenti, la voglia di raccontarsi senza schermature; mette in luce la mentalità, il senso morale, l’amore per la cultura. Si parla anche della cerchia di amici e si mette in risalto il desiderio di Barbato di diffondere la conoscenza di così straordinario intellettuale. I carteggi sono tra i documenti più autentici che ci vengono dal passato. Fra il ‘300 e il ‘400 assistiamo allo svilupparsi di questa forma di comunicazione che cresce velocemente ed è un fenomeno così rilevante da divenire una rete, una continuità culturale, una repubblica culturale virtuale che andrà sotto il nome di “Repubblica delle lettere” e avrà culmine nel ‘700. Avviene quindi che personaggi di cultura non necessariamente letteraria, ma medici, architetti, ogni tipologia legata alla conoscenza, provi il piacere di confrontarsi. Le distanze geografiche, le differenze politiche, passano in secondo piano, le tradizioni e culture si integrano, interagiscono e cresce in questo spirito comunitario la voglia di unità e di autonomia. L’idea dell’Italia unita non era mai venuta meno. Del resto quando ci fu la riforma augustea nell’intento di dividere l’enorme impero romano in province, la penisola italica fu inclusa in un unicum, riconoscendo unità di lingua e di tradizioni. Ricorderete Dante: Ahi serva Italia i dolore ostello. Lo spirito è quello. Nel tempo la voglia di unità verrà incrementata anche dal crescente studio dei classici, dal ritrovato orgoglio per una grandezza che si prolunga come dato reale, ed esploderà soprattutto nel ‘700 con la passione archeologica, passione che abbiamo già visto appartenere al Petrarca e che specie nel centro e nel sud Italia porterà alla luce monumenti di valore inestimabile. Noi troppo spesso guardiamo queste figure poco note come personaggi su cui non porre troppa attenzione. Saranno figure secondarie sul piano della qualità letteraria, ma la loro opera nel creare scuole di pensiero, nell’ incrementare interessi formativi, nel dare vita a palestre di conoscenza, ha avuto un valore indiscusso, sia come crescita individuale, sia come partecipazione e prolungamento di idee le cui ramificazioni sfuggono alla nostra capacità di individuarne le dimensioni e diramazioni. Barbato rimane un personaggio illuminato sì dalla figura del Petrarca, ma che ha saputo restituire ampiamente la sua ricchezza umana e culturale, contribuendo attivamente alla diffusione del sapere.

*Presidente della Società Vastese di Storia Patria

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