Giorgio Perlasca (Como, 31 gennaio 1910 – Padova, 15 agosto 1992) è stato un funzionario, filantropo e commerciante italiano. Nell’inverno del 1944, nel corso della seconda guerra mondiale, fingendosi Console generale spagnolo salvò la vita di oltre cinquemila ebreiungheresi strappandoli alla deportazione nazista e alla Shoah.Figlio di Teresa Sartorelli e di Carlo Perlasca, ancora bambino si trasferì con la famiglia a Maserà, in provincia di Padova, per seguire il padre trasferitocisi per motivi di lavoro. In gioventù aderì al Partito Nazionale Fascista e nel 1930 si arruolò nelle Camicie nere. Prese parte come volontario nel 1936 alla guerra d’Etiopia con la divisione “28 ottobre” della Milizia e nel 1937 alla guerra civile di Spagna, nel Corpo Truppe Volontarie, a fianco dei nazionalisti del generale Francisco Franco, dove rimase come artigliere fino al termine del conflitto, nel maggio 1939, quand’era ventinovenne. In questi anni, avendo il ruolo di comunicare ordini tra settori differenti dell’esercito, apprese lingua e cultura spagnole. Rientrato in Italia iniziò ad allontanarsi dal fascismo, in particolare non condividendo la promulgazione delle leggi razziali e l’alleanza con la Germania siglata quell’anno. Nel 1939 fu richiamato nelle vesti di sergente maggiore per gestire l’istruzione teorica e storica di un reggimento padovano d’artiglieria. Nel novembre successivo chiese e ottenne finalmente una licenza militare indeterminata. Decise quindi di lasciare l’Italia occupandosi di attività commerciali. Perlasca, che nel 1940 si era sposato in Italia, si trovò a lavorare prima in Croazia, Serbia e Romania e, dal 1942, in Ungheria a Budapest, in qualità di agente venditore per una ditta di Trieste, la SAIB (Società Anonima Importazione Bovini), con permesso diplomatico. Memoriale dei Giusti tra le nazioninel parco Raoul Wallenberg di Budapest, nella lista dei nomi, quello di Giorgio Perlasca Il giorno dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943) si trovava ancora nella capitale ungherese e, prestando fedeltà al giuramento fatto al Regno d’Italia, rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana di Mussolini. Per questo motivo si trovò a essere ricercato dai tedeschi. Arrestato ed internato, fuggì e cercò rifugio presso l’ambasciata spagnola. Grazie a un documento che portava con sé attestante la partecipazione alla guerra civile spagnola che gli garantiva assistenza diplomatica, ottenne dall’ambasciata una cittadinanza fittizia e un passaporto spagnoli, intitolati all’inesistente «Jorge Perlasca». Tra le altre mansioni, fu impegnato con l’ambasciatore Ángel Sanz Briz nel tentativo di salvare gli ebrei di Budapest, ospitati in apposite «case protette» soggette all’extraterritorialità per la copertura diplomatica, dietro il rilascio di salvacondotti. Tale operazione era stata organizzata con la collaborazione di alcune ambasciate di altre nazioni e una generale e iniziale tolleranza del governo ungherese. Quando nel novembre 1944 Sanz Briz decise di lasciare Budapest e l’Ungheria per non riconoscere il governo filonazista ungherese, Perlasca decise di restare e spacciarsi per il sostituto del console partente, all’insaputa dello stesso e della Spagna, redigendo di suo pugno la nomina a diplomatico, con timbri e carta intestata. Da quel momento Perlasca si trovò a gestire il “traffico” e la sopravvivenza di migliaia di ebrei, nascosti nell’ambasciata e nelle case protette sparse per la città, come similmente cercavano di fare il diplomatico svedese Raoul Wallenberg e il nunzio apostolico Angelo Rotta. Tra il 1º dicembre 1944 e il 16 gennaio 1945, Perlasca rilasciò migliaia di finti salvacondotti che conferivano la cittadinanza spagnola agli ebrei, arrivando a strappare letteralmente dalle mani delle Croci Frecciate i deportati sui binari delle stazioni ferroviarie. Sventò inoltre l’incendio e lo sterminio nel ghetto di Budapest con 60.000 ebrei ungheresi, intimando direttamente al ministro degli interni ungherese Gábor Vajna una fittizia ritorsione legale ed economica spagnola sui “circa 3000 cittadini ungheresi” – in realtà poche decine – dichiarati da Perlasca come residenti in Spagna, assicurando di fare pressione per avere lo stesso trattamento da parte di altri due governi latinoamericani. Tale salvataggio è stato generalmente attribuito a Raoul Wallenberg, in seguito alle dichiarazioni di Pál Szalai che, processato per crimini di guerra, affermò di averne concordato personalmente con lo svedese i termini: Wallenberg era già morto quando Szalai fece le proprie dichiarazioni, poi smentite da Perlasca e spiegate nella volontà di Szalai di costruire la propria innocenza dai crimini. Curò infine personalmente l’organizzazione e l’approvvigionamento dei viveri, recandosi ogni giorno presso le abitazioni, e utilizzando gli scarsi fondi dell’ambasciata, poi i propri e quindi studiando e applicando un sistema equo di autotassazione sui rifugiati, basato sugli averi di ciascuno.Grazie all’opera di Perlasca, 8000 ebrei furono direttamente salvati dalla deportazione. Dopo l’entrata a Budapest dell’Armata Rossa, Perlasca dovette abbandonare il suo ruolo di diplomatico spagnolo, in quanto filo-fascista e perciò ricercato dai sovietici.
Riuscito a tornare nell’agosto 1945 in Italia via Istanbul, redasse e inviò un primo promemoria per evitare eventuali imputazioni dal governo spagnolo e poi un memoriale in tre copie sulle attività svolte, che consegnò all’ambasciata spagnola e al Governo Italiano, tenendo una copia per sé. Scrisse anche all’ambasciatore che aveva sostituito, Sanz Briz, che lo avvertì mestamente di non aspettarsi alcun riconoscimento per l’opera svolta. Scrisse anche ad Alcide De Gasperi che non rispose. Non raccontò la propria vicenda né alla famiglia, né alla stampa e si rivolse piuttosto a chi reputava essere il corretto destinatario diplomatico e statale del suo memoriale. Tuttavia, i pochi vertici a cui comunicò la vicenda lo ignorarono per ragioni diplomatiche, politiche o per poca attenzione. Anche lo storico ebreo Jenő Lévai, che pur gli chiese una copia del memoriale e contribuì poi a comunicare il suo nome, omise di raccontarne la vicenda nel suo “Libro nero”, presumibilmente per ragioni politiche. Soltanto nel 1961 sul Resto del Carlino del 12 giugno apparve un primo articolo di Giuseppe Cerato che raccontava la sua vicenda, senza però risonanza, stessa sorte per un articolo di fine anni 1960 su La Stampa firmato da Furio Colombo. La famiglia seppe del memoriale da lui redatto solo a seguito dell’ictus di cui fu vittima nel 1980, quando decise di avvertire i parenti della sua esistenza qualora fosse deceduto, per poi però continuare a custodirlo senza comunicarne i contenuti una volta ripresosi. Ne conobbero i contenuti solo nel 1987, quando la vicenda divenne pubblica. Nel 1987, oltre quarant’anni dopo, alcune donne ebree ungheresi residenti in Israele rintracciarono finalmente Perlasca (reputato da molti un cittadino spagnolo di nome Jorge, vista l’identità che aveva assunto) e divulgarono la sua storia di coraggio e solidarietà. Ancora in vita, Perlasca ricevette per la sua opera numerose medaglie e riconoscimenti. Il 23 settembre 1989 fu insignito da Israele del riconoscimento di Giusto tra le Nazioni. Al museo Yad Vashem di Gerusalemme, nel vialetto dietro al memoriale dei bambini è stato piantato un albero a lui intitolato. Anche a Budapest, nel cortile della Sinagoga, il nome di Perlasca appare in una lapide che riporta l’elenco dei giusti. La vicenda acquisì poi finalmente notorietà anche in patria, grazie ai giornalisti Enrico Deaglio (che scrisse su di lui il libro La banalità del bene) e a Giovanni Minoli, che accettò la proposta di Deaglio di realizzare un’inchiesta su Perlasca dedicandogli ampio spazio nella trasmissione televisiva Mixer. Solo nell’ottobre 1991 fu insignito dal governo italiano dell’onorificenza di Grande Ufficiale, mentre nel dicembre 1991 il senato approvò un vitalizio annuo, che Perlasca rifiutò. Morì nove mesi dopo a Padova, nell’agosto 1992, all’età di 82 anni, per un attacco di cuore. È sepolto a Maserà di Padova .