PETRONILLA PAOLINI LA NOBILE POETESSA DI TAGLIACOZZO

PAOLINI, dei Paolini Massimi, Petronilla. – Nata a Tagliacozzo il 24 dicembre 1663 da Francesco Antonio e da Silvia Argoli. Nel 1667 perse il padre, assassinato nel suo feudo di Ortona per intrighi riconducibili a Lorenzo Onofrio Colonna, contestabile del Regno di Napoli, del quale era uno stretto collaboratore. Divenuta probabilmente oggetto di pressioni familiari in quanto erede del vasto patrimonio paterno, fu condotta a Roma dalla madre, con la quale, nel 1670, poté stabilirsi nel convento dello Spirito Santo, presso il foro Traiano, dove svolse i primi studi appassionandosi alle lettere e in particolare alla poesia.

All’età di otto anni ricevette proposte di matrimonio da vari esponenti della nobiltà romana, interessati alla sua dote e, per volontà di papa Clemente X, fu promessa sposa al trentaseienne Francesco Massimo, vicecastellano di Castel Sant’Angelo. Le nozze furono celebrate nel 1673 grazie a una speciale dispensa pontificia, date le leggi vigenti che prevedevano per la sposa un’età minima di dodici anni. Tuttavia, troppo giovane per convivere con il marito, lo raggiunse a Castel Sant’Angelo solo nel 1678, iniziando una vita matrimoniale resa intollerabile dall’eccessiva differenza di età e dall’incompatibilità tra la sua sensibilità artistica e il temperamento intransigente e violento del coniuge. Relegata nel castello e privata dal marito di ogni attività, cercò conforto negli studi e soprattutto nella poesia, come attesta la produzione di rime di impronta barocca, prevalentemente religiose e d’occasione, rimaste inedite fino al nostro secolo (P. Paolini Massimi, Le rime. Raccolta degli inediti, a cura di A. Gamberoni et al., Avezzano 2006). Nonostante tutto non cessò di nutrire un’evidente aspirazione all’autonomia, come dimostra la sua ammirazione per la regina Cristina di Svezia, modello di intelligenza e indipendenza, incontrata a Castel Sant’Angelo nel 1678.

Anche dopo la nascita dei figli Angelo (1679), Domenico (1681) ed Emilio (1682), continuò a subire le prepotenze del consorte e nel 1690 decise di abbandonare Castel Sant’Angelo. Con il pretesto di accudire la madre sofferente, ottenne dal marito il permesso di tornare presso il monastero dello Spirito Santo, pur restando sotto la sua tutela. Benché ancora segregata, in convento, se non altro poté pienamente attendere alla letteratura e alla filosofia, con particolare interesse al neoplatonismo ficiniano, di cui molta della sua produzione poetica è permeata.

Nel 1694 si aprì il processo relativo alla legittimità della separazione, poi esteso alla valutazione e all’amministrazione della dote. Sul finire di quell’anno, provata dai fatti processuali, da forti ristrettezze economiche e da problemi di salute, Paolini vide il primo riconoscimento delle sue qualità poetiche nell’aggregazione all’Accademia degli Infecondi di Roma con lo pseudonimo di Urania Tollerante. Di lì a poco apprese la notizia della morte del secondogenito Domenico, che non aveva potuto assistere perché il marito le proibiva da tempo di incontrare i figli.

Nel 1697 la sentenza della Sacra Rota non riconobbe la legittimità della separazione e a Paolini non spettò alcun mantenimento. Le furono invece attribuiti il diritto di rimanere in monastero, poiché non tenuta a rispettare gli obblighi matrimoniali e, con il protrarsi delle vicende legali (1701), un sesto del patrimonio dotale.

I dolorosi accadimenti personali e l’intensificarsi dell’attività letteraria dell’ultima decade del Seicento, resero Paolini più matura e consapevole del proprio stato, come attestano anche i componimenti poetici di quegli anni, nei quali alla consueta componente religiosa subentra la protesta contro la difficile condizione femminile. Si tratta di due canzoni autobiografiche prodotte tra il 1694 e il 1697, Quando dall’urne oscure Spieghi le chiome irate (entrambe, con altre sue rime, in Rime degli Arcadi, a cura di G.M. Crescimbeni, I, Roma 1716, pp. 163-194), nonché di un sonetto composto successivamente, Sdegna Clorinda a i femminili uffici(con altre sue rime, in Rime scelte di poeti illustri, a cura di B. Lippi, I, Lucca 1709, pp. 218-221), il più famoso della poetessa che, dedicato al tema dell’uguaglianza tra uomo e donna, le valse la fama di femminista ante litteram.

Nel 1698, con lo pseudonimo di Fidalma Partenide, fu aggregata all’Arcadia di Roma, grazie alla decisione di Giovan Mario Crescimbeni, custode accademico, di pubblicarne il sonetto Pugnar ben spesso entro il mio petto io sento nella Istoria della volgar poesia (Roma 1698, p. 247), dove gli autori contemporanei annoverati dovevano essere arcadi. Il suo talento trovò ulteriore riconoscimento in Della perfetta poesia italiana (IV, Modena 1706, p. 343) di Ludovico Antonio Muratori, che pubblicò lo stesso sonetto, giudicandolo un componimento che «arreca non poco splendore all’età nostra».

Paolini ottenne la stima di diversi arcadi: Crescimbeni, severo censore della produzione non conforme ai canoni accademici, ne approvò quelle rime inconsuete per poetica arcadica; Alessandro Guidi, da sempre suo riferimento poetico, e Pier Iacopo Martello le dedicarono rispettivamente la canzone Il Tevere (in Rime di A. Guidi alla santità di… Clemente undecimo, Roma 1704, p. 97) e la tragedia Quinto Fabio (P.J. Martello, Teatro italiano, II, Roma 1715); Antonio Magliabechi, Vincenzo Filicaia, Gregorio Redi e Niccolò Montemelini furono in corrispondenza con lei.

Oltre alla notorietà, l’appartenenza all’Arcadia e ad altre accademie, quali quelle degli Insensati di Perugia, degli Intronati di Siena, degli Invigoriti di Foligno, degli Oscuri di Lucca, degli Immaturi di Pergola, le valse il sostegno e la protezione di cui necessitava come donna sola, in conflitto con il marito.

Agli inizi del Settecento, dopo aver superato il risentimento e la condanna dell’egemonia maschile, si dedicò prevalentemente alla fede, come attesta anche la sua appartenenza a varie confraternite e congregazioni religiose, quali quella delle carmelitane scalze della chiesa di S. Egidio in Trastevere.

Nel 1707, alla morte del marito, riuscì a riconciliarsi con i figli, condizionati fino ad allora dal rancore paterno, e si trasferì a palazzo Massimo all’Ara Coeli assieme con loro e con la madre. Per rivedere i luoghi nativi, nel 1709 si recò nella Marsica, soggiornando a Tagliacozzo, Magliano e Sulmona e, come conferma un documento del 1710, donò ai figli il suo patrimonio, a eccezione dei feudi di Ortona e Carrito, riservandosi il diritto di risiedere a palazzo Massimo.

Conquistate l’autonomia e la tranquillità economica, Paolini, finalmente in grado di partecipare agli incontri accademici e di organizzarne alcuni in casa sua, attese con soddisfazione alle lettere. Attenuò i toni della sua poesia, trattando contenuti di più matura religiosità. Ne conseguirono l’autocritica, in particolare verso la produzione d’occasione, e la condanna del travestimento bucolico-pastorale, a favore di una poesia più alta e autenticamente religiosa. È quanto risulta in un sonetto composto tra il 1698 e il 1709, Scende il Ver dalle Stelle, e adombra, e sface (in Rime scelte di poeti illustri, a cura di B. Lippi, cit., p. 220), apparso come tentativo di ricordare ai compastori il nucleo cattolico dell’istituzione arcadica.

Paolini morì a Roma il 3 marzo 1726, dopo una progressiva prostrazione causata dalla morte della madre (1715); fu sepolta nella chiesa di S. Egidio.    

 

 

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