Ricordando Cavour, moriva il 6 giugno del 1861

 

 

di Mario Setta

 

 

In questo momento di particolare attenzione alla politica in Italia,

il ricordo di personalità come Camillo Benso di Cavour e di quanti

hanno lasciato un’orma indelebile nella storia e nella cultura della nazione,

può diventare memoria e stimolo per una leale partecipazione individuale e sociale.   

 

 

Il 6 giugno 1861, 157 anni fa, all’età di 51 anni, moriva Camillo Benso di Cavour. Il più grande statista dell’Unità d’Italia. Poco prima di morire aveva ricevuto dal parroco, padre Giacomo da Poirino, un francescano suo vecchio amico, il sacramento dell’estrema unzione (oggi chiamato “Unzione degli infermi”) che il sacerdote non avrebbe dovuto amministrargli perché scomunicato. Chiamandolo per confessarsi, Cavour aveva detto: “Voglio che si sappia, voglio che il buon popolo di Torino sappia ch’io muoio da buon cristiano”. Ma non sconfessò né fece ritrattazioni sulla netta separazione tra Chiesa e Stato.

 

Cavour, moralmente parlando, non era certamente un “santo”, anche per le sue passioni sentimentali che lo avevano legato da giovane ad Anna Giustiniani, patriota genovese, maritata, morta suicida per non poter continuare la relazione con Cavour. In seguito, nella maturità, stabilisce una relazione con Bianca Berta Sovierzy, ballerina magiara, maritata Ronzani, con la quale Cavour ha un fitto carteggio, tanto che nel 1894 ne fu posta in vendita una serie di 24 lettere, acquistate dal suo segretario, Costantino Nigna e bruciate. Era evidente che le lettere avrebbero offuscato la fama di Cavour, grande statista. Tuttavia, anche oggi, si possono leggere le lettere di Cavour a Bianca Ronzani, pubblicate dalle edizioni Archinto, con prefazione di Lucio Villari, dal titolo “Amami e credimi”:

 

Purtroppo, i guai per l’assoluzione dai peccati in punto di morte data a Cavour, considerato da Pio IX acerrimo nemico, fu per il povero prete una grandissima disgrazia. Chiamato subito dal papa e dal segretario di Stato per riferire sugli ultimi istanti di Cavour e per sapere se avesse ritrattato, gli fu imposto di scriverne una dettagliata relazione. Dopo averla letta, Pio IX prese i fogli e glieli riconsegnò dicendo che erano buoni solo “per avviluppare i salami” (Lorenzo Greco, “Il confessore di Cavour”).

 

Convocato dal Sant’Uffizio, il tribunale dell’Inquisizione, il prete fu punito con la “sospensione a divinis”. Era la vendetta, per interposta persona, nei confronti del grande statista, artefice dell’Unità d’Italia che pochi mesi prima, il 27 marzo 1861, dieci giorni dopo la proclamazione dell’Unità, nel discorso programmatico aveva detto:

 

“Noi riteniamo che l’indipendenza del Pontefice, la sua dignità e l’indipendenza della Chiesa possano tutelarsi mercé la proclamazione del principio di libertà applicato lealmente, largamente, ai rapporti della società civile colla religiosa. Quando questa libertà della Chiesa sia stabilita, l’indipendenza del papato sarà su terreno ben più solido che non lo sia al presente. Né solo la sua indipendenza verrà meglio assicurata ma la sua autorità diverrà più efficace, poiché non sarà più vincolata dai molteplici Concordati, da tutti quei patti che erano e sono una necessità finché il Pontefice riunisce nelle sue mani, oltre alla potestà spirituale, l’autorità temporale.”

 

Cavour aveva previsto che la Libertà sarebbe stata la migliore arma di difesa della Chiesa. Non fu ascoltato. Come non fu ascoltato quando parlò di Libertà per risolvere i problemi del Sud Italia: “Io governerò i meridionali con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le province più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio: ve lo raccomando”, racconta Giordano Bruno Guerri, in “Il sangue del Sud”.

 

Dopo 157 anni le parole di Cavour restano sulla carta. Da allora, sulla scena politica italiana, statisti capaci di realizzarle, non se ne sono visti! “Non è facile amare Cavour. Aristocratico, cosmopolita… una delle intelligenze più vive del tempo; morto più povero di quando era entrato in politica, primo ministro senza stipendio e con un appartamento di rappresentanza che non usava, preferendo invitare gli ospiti per pranzo a proprie spese… La sua figura è troppo complessa, paradossalmente troppo moderna per essere sentita vicina dall’Italia di oggi”, cosi scrive Aldo Cazzullo, nel libro “Viva l’Italia”.

 

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