Lo immaginiamo a 50 anni. Mezzo secolo sulle spalle e sulle gambe. Mezzo secolo di fatiche e bicicletta. Pantani a 50 anni, mio dio. La pelata sarebbe la stessa, un po’ di rughe sparse sul volto. Perché l’età arriva per tutti. Qualche chilo in più sulle gambe ma la stessa leggerezza di sempre. Perchè quello era il suo DNA, il suo disegno: la geografia di un corpo destinato a volare come una piuma nel cielo, lungo rampe da capogiro e tornanti che puntano il cielo.
Lo immaginiamo con lo stesso pizzetto millimetrico a disegnare i volti di un Pirata al comando della nave. Con gli orecchini che svolazzano su e giù. Il piercing sul naso, quello che volò via lungo l’asfalto di Montecampione. Chissà che fine avrà fatto.
Lo immaginiamo più Marco e meno Pantani. Finalmente libero da quella sofferenza, dalle voci assordanti, dalle menzogne con le quali è invecchiato. Andrebbe ancora in bicicletta, chissà. Certo che sì. Sempre a modo suo, senza qualsivoglia aiuto meccanico o tecnologico. Alla vecchia maniera, come piaceva a lui, artigiano in mezzo alle multinazionali. Uno che combatte e resiste al progresso che imprigiona. Andateglielo a spiegare che il ciclismo è cambiato, che non è più come il suo.
Lo immaginiamo romantico come un tempo, antico come i saggi. Seduto su una panchina a dissetarsi dalla borraccia, vicino a una di quelle fontanelle tracciate nella mappa del suo cuore. Avrebbe pedalato con gli amici di sempre, raccontato storie, rispolverato ricordi, rivissuto emozioni. Avrebbe illuminato come faceva sui pedali, perché i poeti continuerebbero a scrivere per sempre.
Lo immaginiamo circondato dall’affetto di una famiglia che non ha mai costruito. Oppresso, frustrato, umiliato da un mondo non più suo. Avrebbe ricordato il momento più buio con la solita naturalezza, impreziosita dalla saggezza acquisita con gli anni. Avrebbe raccontato del Giro, del Tour, di quella vittoria sul Mont Ventoux, di quando ha conosciuto la Marmolada e scalato per la prima volta il Mortirolo.
Lo immaginiamo a raccontare il ciclismo, il suo ciclismo. E a commuoversi ripensando a quei tempi come un tesoro prezioso da custodire. Avrebbe detto che lo sport sta cambiando, in peggio o in meglio. Forse avrebbe preferito che tutto fosse rimasto così com’era, perché gli eroi conserverebbero la memoria in eterno.
Lo immaginiamo sorridere come quel giorno a Parigi, davanti l’Arco di Trionfo. O come quella volta all’Alpe d’Huez. O come quell’altra all’ombra del Santuario di Oropa.
Lo immaginiamo, lo sognano, lo piangiamo. Perché la sua immagine vivrà in eterno. Perché quell’uomo non avrebbe mai potuto invecchiare come gli altri. Perché oggi, a 50 anni dalla sua nascita, lo ricordiamo così come è stato: Marco Pantani. Il più grande.