Parlare di Fausto Coppi ad un appassionato di ciclismo è un po’ come ricordare Diego Armando Maradona ad un napoletano doc della Curva B. L’emozione e la luce negli occhi è la stessa, tipica di due che hanno varcato da tempo la soglia dell’immortalità. Angelo Fausto Coppi da Castellania, estrema periferia piemontese. Un predestinato, colui che cambiò per sempre la storia del ciclismo e quella dell’Italia. Già, il nostro Bel Paese che faticava a ripartire dopo la Seconda Guerra Mondiale e che ha ritrovato la speranza proprio grazie alla rivalità tra Fausto e Gino Bartali, un dualismo che ha diviso ma anche riavvicinato il popolo ai valori della vita che solo quello sport così faticoso che è il ciclismo sa trasmettere.
Il mito di Coppi, il “più grande” della storia, l’antenato del corridore moderno competitivo su tutti i terreni, una macchina umana concepita non solo per vincere ma anche per emozionare, per scrivere una storia tramandata di generazione in generazione. A 58 anni esatti dall’ultimo volo dell’Airone, ancora ci si interroga sui misteri di quella morte che ha chiuso per sempre le ali del “Campionissimo”, un appellativo che va oltre l’atleta vincente e che abbraccia la leggenda.
Fausto non è stato uno sportivo qualunque bensì il primo vero atleta simbolo di una Nazione intera. Messe da parte le imprese mondiali e olimpiche dell’Italia del calcio guidata da Pozzo e Meazza, lo sport azzurro ha vissuto momenti drammatici durante il conflitto bellico. La storia dei ciclisti-soldati non è solo mito: lo stesso Coppi fu rapito e fatto prigioniero in Africa, lui che nel 1942 aveva fatto registrare un incredibile record dell’ora sotto i bombardamenti del Velodromo Vigorelli di Milano, lui che conquistò il suo primo Giro d’Italia il 9 giugno 1940, il giorno prima dell’entrata in guerra delle truppe italiane. Un’impresa, resa ancor più indimenticabile dallo “sgarro” al capitano Bartali, che rischiò seriamente di finire nel dimenticatoio ma che, al contrario, ha fatto da trampolino per la gloria futura. Più forte della follia bellica e di una ricostruzione che pareva utopia, il talento di Fausto ha ridato sogni e speranza ad un popolo depresso, quando di fame ce ne era tanta e di soldi pochissimi. Lungo le strade disastrate la domanda fatidica era una sola: “Coppi o Bartali?”. Il comunista e il democristiano, l’adultero e l’uomo ligio ai valori della famiglia. Gli universi “coppiani” e “bartaliani” erano assai distanti, senza punti di incontro. O forse no. La storica foto che immortala il passaggio della borraccia sul Galibier va oltre ogni divisione, come a voler mandare un messaggio di unificazione al mondo. La magia dell’Airone e di Ginettaccio è tutta qui.
Alle 8.45 del 2 gennaio 1960, nella camera numero 4 dell’ospedale di Tortora, Fausto Coppi si arrese alla malaria, contratta nel suo ultimo viaggio africano e ampiamente sottovalutata dai medici che la scambiarono per una semplice influenza. Nella camera ardente entrò un incredulo Bartali che prese per mano il rivale di una vita. Il 2 gennaio di 58 anni la sfida si chiudeva per sempre. Tutto era finito. La memoria ha fatto tutto il resto.
Luca Pulsoni