Annotazioni sul film “Il traditore” di Marco Bellocchio
di Marilena Ranieri
Il film “Il traditore“, drammaticamente imponente, racconta l’ultimo ventennio italiano del `900 attraverso l’epopea di Tommaso Buscetta (Palermo 1928 – New York 2000) storico pentito di mafia, chiamato anche “Don Masino” o “boss dei due mondi”; un pentito che cambierà, in modo significativo, i rapporti tra Stato e criminalità organizzata con le sue rivelazioni e la collaborazione con la giustizia. La scena iniziale si apre con la festa di S. Rosalia (1980) dove, con una pace apparente e formale tra Palermitani e Corleonesi, si fa baldoria in un contesto vivace di canti, balli e fuochi d’artifici. Palermo, in quegli anni, era la capitale mondiale dell’eroina con i suoi traffici illeciti di denaro, sangue e morte. La storia è molto articolata, ricca di vicende, colpi di scena, personaggi, confronti e codazzi giudiziari nei tribunali; il film non segue un andamento lineare, si concentra sulle principali vicende drammatiche anni ’80 e ’90, dallo scoppio della seconda guerra di mafia al maxi – processo di Palermo.
Pierfrancesco Favino dà un’ottima performance recitativa e grazie alla sua convincente interpretazione tra il suo controverso personaggio e lo spettatore. Negli anni ’80 vige una rivalità tra cosche: i Palermitani e i Corleonesi, capitanati gli ultimi da Totò Riina. Alla base dei loro interessi c’è il predominio sul narcotraffico. Il “tradimento” di Buscetta suscitò la violenta reazione e vendetta di Corleonesi che portò all’uccisione dei suoi parenti tra cui i figli (Antonio e Benedetto). Buscetta aveva deciso di partire in Brasile lasciando a Palermo i due figli avuti da un precedente matrimonio, sotto la protezione di Pippo Calò, diventato in seguito suo acerrimo nemico. In seguito venne estradato in Italia dove inizierà a collaborare con il giudice Giovanni Falcone contro la mafia e da qui ne deriverà il più grande processo di “Cosa nostra”. La conseguente guerra di mafia sarà una resa dei conti infinita tra Riína, Buscetta e gli affiliati Di Stefano Bontate.
Il film non rende l’idea e di trasparenza sul piano psicologico ed emotivo sulla personalità del protagonista e sulle intricatissime vicende che lo legano ad altri personaggi. La storia viene scremata ad elementi drammatici ed essenziali; anche gli incontri tra Buscetta ed il giudice Falcone e quello fortuito con Andreotti senza braghe, hanno un approccio, sobrio, pallido, non carico di enfasi ed emotività. Lo scopo, nella frammentarietà del linguaggio narrativo, è quello di non svelare mai gli equilibri interni, molto delicati e le dinamiche di un protagonista controverso e contraddittorio, cui sembrerebbe che “Cosa nostra” non gli fosse mai appartenuta, a prescindere dai crimini di cui si è macchiato. Il regista trasforma le azioni in parole, attraverso effetti di re-enactment, con un contorno ricco di didascalie, cifre e date.
Al centro del progetto risaltano le sequenze del maxi-processo di Palermo, dove l’aula-bunker di un tribunale si trasforma in un palcoscenico teatrale, in un caotico confronto tra Buscetta e i suoi avversari, tra “imputati e impostori”. Non mancano episodi cruenti e masochisti, carichi di una violenza verbale inaudita fatta di urla, strepiti e isteria collettiva, tanto da sembrare uno scenario infernale da bolgia dantesca. Lo stesso giudice del Tribunale è in capace di mantenere il controllo di una situazione degenerante. Buscetta non rappresenta né l’eroe negativo, l’eroe positivo; il suo “tradimento” non passa come un’infamia ma come un atto di ribellione a chi ha veramente tradito i principi di “Cosa nostra”.
Emerge il parallelismo con l’altro film “Buongiorno notte” che tratta la triste vicenda dell’omicidio di Aldo Moro. In entrambi i film c’è la storia di due personaggi realmente esistiti, di due drammatiche storie di stampo shakespeariano, dove si ha la trasposizione cinematografica dalla realtà all’immaginazione all’imprevedibile, ad una storia con fine romanzesco. Il film segue un copione da tragedia classica, dove il susseguirsi delle vicende è strutturato con un linguaggio quasi giornalistico, gli unici intervalli sono le immagini oniriche della morte immaginata del protagonista, in uno scenario drammatico dove si riversano tutte le paure, le ansie e le angosce dell’uomo Buscetta. Lo spettatore si lega a lui attraverso un filo di empatia condizionata sul piano umano, senza condannarlo, né scagionarlo dalle sue colpe. La sua vita diventa una via di fuga con un futuro imprevedibile ed un muro che divide da un lato la sua voglia di libertà ed indipendenza, dall’altro la consapevolezza di una realtà che diventa teatro di potere delle parti e dove entrano in gioco posizioni ed accuse che si contrappongono di continuo. Tutto viene declinato in uno sfondo romanzesco dove la voglia di libertà e l’orgoglio si contrappongono ai ricordi, alla paura, alla squallida e crudele resa dei conti con il duro passato.
Favino, attraverso la sua performance carismatica ma accattivante, mette in luce le ambiguità del personaggio. E’ difficile stabilire un confine tra l’uomo e il boss ma Bellocchio è abile nel creare un filo conduttore sospeso tra il suo Buscetta e lo spettatore tale da lasciare dubbi e interrogativi sulla personalità di un uomo di mafia che pur essendo tale, è narcisista e amante delle donne e quindi “rompe le regole” del prototipo uomo di “cosa nostra”. Don Masino si è scrollato di dosso l’educazione criminale; il suo non è un siciliano stretto ma è intriso di portoghese, canticchiava brani spagnoli come un “chansonnier”, veste abiti eleganti e su misura. Lui era il boss elegante, goliardico e da ……. di due mondi. Anche nella sua collaborazione con lo stato e nel rapporto con Giovanni Falcone c’è uno scambio di relazione e di consapevolezza che uno dei due morirà, ma senza capire chi per primo.
Ma il vero gioco delle parti emerge nell’aula bunker del maxi-processo: ognuno finge di aver incontrato il pentito e di vederlo per la prima volta, in una sorta di palco teatrale dove si consumano bugie e finte moine. Totuccio Contorno reagisce con fervore alle provocazioni dei mafiosi ed esibisce uno spiccato e colorito accento siciliano tanto da rendersi incomprensibile a tutti. La protagonista femminile (Maria Fernanda Candido) viene “esibita” come oggetto sessuale alle dipendenze del marito. Secondo una visione di assoluto maschilismo, promossa nei circoli e nella cultura di “cosa nostra”, i personaggi femminili vengono catalogati come “oggetti” di sesso, subordinati alla volontà dei coniugi. La drammatica colonna sonora degli strumenti a corda firmata da Nicola Piovani conferisce un effetto lirico alle scene dei confronti tra Buscetta e gli altri imputati. Bellissime le scene dell’alba sullo sfondo di una maestosa ed imponente Rio de Janeiro e le sue scene più violente ed aggressive del ricatto ai danni di Buscetta, con tanto di tortura e moglie sospesa dall’elicottero, dopo il suo arresto per droga.
Il regista traspare come un uomo senza scrupoli e manifesta nel film il suo stile senza mezze misure. La scenografia non è mai banale o lasciata al caso; le scene sono prevedibili ma mai scontate, pesate accuratamente anche nei dialoghi, nelle pause, nelle battute. Da un lato c’è la volontà bellocchiana di suscitare nello spettatore la curiosità, la riflessione, il senso critico nel giudizio; dall’altro prevale il senso morale di non svelare le motivazioni, le cause dietro ai fatti e alle dinamiche. Lo scopo è riportare a galla una realtà che brucia, il senso della verità, gli impulsi ed il tormento di un uomo legato al suo passato, dilaniato dalla paura e dai rimorsi. Il suo è un esempio di mafia borghese, raccontata attraverso un personaggio distinto ed elegante, con lo stile di un romanzo popolare. Buscetta è in aperto contrasto con Totò Riina, uomo dalla personalità psicopatica e moralista. Nel confronto aperto, i due boss diventano le figure emblematiche di due poteri provocatoriamente contrapposti e speculari; l’imprenditore moderno che crede nei principi del codice d’onore di Cosa nostra ed il boss tradizionale, bieco e cinico che non si risparmia di uccidere donne e bambini.
Dopo “Buongiorno notte”, “Vincere” e “Bella Addormentata” il “Traditore” è un altro tassello del cinema d’autore nel panorama italiano e internazionale. La sceneggiatura parte prima in modo disordinato, veloce e violento con l’arresto di Don Masino in Brasile, poi si avvicina, soprattutto nel rapporto con Falcone, ad uno stile più pacato ed essenziale per poi approdare nell’ironia tragica e teatrale dell’aula – bunker, dove la giustizia ed il gioco delle parti di potere sono protagonisti. In seguito, a cambiare registro, sono le scene dei sensi di colpa di un uomo e padre che piange i suoi figli, che fa trasparire il suo tormento ed il suo desiderio di vendetta. Durante la sua latitanza, canta “Historia de un amor”, nell’ultima fase della sua vita, la più buia e crepuscolare.
Emerge in tutta la sua filmografia, l’etica dei grandi temi di Bellocchio legati al nostro paese. La vera protagonista del film è la mafia borghese che emerge anche dalle fotografie di Vladom Radovic, il tutto avvolto in un grigiore burocratico e in gioco di potere. Si coglie, nel complesso del film, un vivido legame alle vicende storico – morali de “Il Padrino” data la ricorrenza ed i riferimenti ai Corleonesi di Totò Riina. Secondo me, attraverso l’enigmatico protagonista di Tommaso Buscetta, il merito del regista è quello di aver messo allo specchio uno stato criminalmente assente.