di Giuseppe Lalli
Potrà suonare strano, ma quando frequentavo le scuole elementari, per noi bambini la visita al cimitero, la sera di Ognissanti, aveva il sapore di una piccola festa. Dopo cena, muniti di candele e lumini acquistati nei giorni precedenti, ci recavamo a rendere omaggio ai nostri morti. Ricordo che mia nonna, prima che io e mia madre lasciassimo la soglia di casa, ci ricordava tutte le tombe dei parenti, dai più stretti ai più lontani. Ma a me parevano tutte uguali…
Una volta arrivati, il camposanto mi appariva illuminato a giorno, tante erano le candele che ardevano sulla nuda terra, giacché a quel tempo i loculi erano pochi e le lapidi la stragrande maggioranza. Dappertutto si avvertiva un crepitìo di fiammelle mosse dal vento e uno scolar di cera. L’atmosfera, per la verità, non sembrava triste, e il sorriso dei saluti, mescolandosi talora con una lacrima, raddolciva il pianto. Non mancava, per la verità, qualche scena di sapore un po’ comico. Ricordo che un uomo, all’apparenza senza età, da tutti conosciuto per un tipo a dir poco originale, prendeva le candele delle tombe vicine e le metteva sulla tomba del parente suo.
Appena intuivo che la visita volgeva al termine, raggiungevo i miei compagni di età fuori del cancello del cimitero e insieme ci fabbricavamo artigianalmente delle fiaccole avvolgendo la cera con il cartone spesso dei pacchi delle candele. Correvamo allegri e rumorosi, tenendo le fiaccole in mano, fino a quando i genitori non ci chiamavano per tornare a casa. Il gioco riprendeva il giorno successivo, dopo la celebrazione della Messa nella piccola cappella dentro il camposanto.
Al ritorno a casa, la sera, ci attendeva il solito annuale rito inquisitorio da parte di mia nonna, che voleva sincerarsi che avessimo accese le candele sulle tombe di tutti i parenti. E li elencava impietosamente, uno per uno:
– A papìtt Giocond?
– A papà maéstr?
– A mammetta Olimpia?
– A papìtt Ciccion?
– A mammetta Rituccia?
– A zi’ Alberico?
– A zi’ prèt vecchie?
– A zi’ prèt giovan?
– A mamma Rusina? …
e non la finiva più. È forse da allora che ho cominciato a nutrire la passione per la storia e l’interesse per le discendenze. A ripensarci, quei nomi mi giungevano come tante folate di calore provenienti dal grande focolare della casa patriarcale: numi tutelari che mi avrebbero accompagnato per tutta la vita.
Il giorno dei morti, poi, amavo molto camminare tra le tombe e leggere le scritte sulle lapidi, che mi pareva si rassomigliassero tutte: Marito esemplare…; Santa sposa… Qualche anno dopo ho capito che la retorica è la pietà con la quale rivestiamo il dolore, è il prezzo che paghiamo ai morti per non essere stati capaci di amarli da vivi.
E’ quando la morte ci colpisce da vicino che ci facciamo domande poco retoriche. Quelli che seguono sono piccoli versi quasi piovutimi dal cielo in un pomeriggio di pioggia al cimitero dell’Aquila.
SORRISI E LACRIME
Al di là della vetrata
d’una cappella,
mi colpisce la
dolce immagine
di una bambina.
Leggo la scritta:
“Se i fiori vivessero
di lacrime,
quelli che vedo piantati
sulla tua tomba
non marcirebbero mai,
bianco fiore presto reciso
e trapiantato Altrove:
piccolo angelo.”
E penso: chissà quanti
piccoli dolci sorrisi
e quanti fruscii d’ali
mi circondano
in questo momento.
Faccio silenzio…
e le gocce d’acqua
che scendono dal cielo
mi paion tante stille
di luce e di speranza.
Dio esiste e ci attende
sull’altra sponda.
E se non lo vedremo,
lo farà apparire
il nostro amore.