Il mio cammino per contrastare la violenza di genere parte da molto lontano. Parte dal vissuto personale di chi ancora è nel fiore degli anni e si ritrova vittima di un meccanismo logicamente incomprensibile. Quando guardo indietro mi capita di pensare di aver vissuto due vite. Non è facile lasciarsi alle spalle il passato perché, come si dice tra gli addetti ai lavori, “un narcisista non ti abbandona mai”.
Negli ultimi anni ho organizzato convegni contro la violenza sulle donne proprio per evitare che il 25 novembre si riduca solamente a esposizioni di scarpe o allo spacchettamento di panchine rosse. L’intento che mi sono infatti prefissata da quando porto avanti la mia battaglia è quello di spiegare i meccanismi patologici che stanno alla base della violenza. Solo la conoscenza di questi permette ad una donna di salvarsi davvero. Solo quella conoscenza mi ha salvata.
Oggi però voglio nuovamente accendere i riflettori su un’altra sfaccettatura del fenomeno che viene messa spesso in secondo piano. Difatti, malgrado le campagne portate avanti dalle Istituzioni e dai media nel condannare qualsiasi forma di violenza, questa viene designata come “di genere” dimenticando quanto in realtà la violenza sia un costrutto che non presuppone discriminazioni in relazione al sesso. Lo sdoganamento della violenza contro le donne attraverso messaggi pubblicitari, iniziative private e televisive, spesso provoca assuefazione e allontana dal punto di partenza. L’immagine di un uomo che picchia una donna non ha scusanti, espone alla gogna mediatica e al biasimo collettivo. A ruoli invertiti, però, la stessa immagine non accende uguale indignazione, viene minimizzata e talvolta persino ironizzata. Un esempio per tutti la notizia di Kelly M. Cochran – che lo scorso anno ha prima fatto a pezzi l’amante e poi l’ha servito in tavola cotto al barbecue – è diventata addirittura oggetto di parodia. Questo per dirvi che, è vero che ad essere maggiormente vittime di abuso sono le donne, ma non per questo deve passare il messaggio che non esiste altra forma di violenza. Seppur minoritaria, quella subita dagli uomini non può essere legittimata o normalizzata. Ragione per cui ho deciso con questo numero della mia rubrica di accogliere nuovamente il dolore di un’altra donna: quello di una madre il cui figlio è stato ucciso dalla persona che amava proprio nella giornata dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne.
Siamo a Cesate, nel milanese. Già, perché è proprio nei piccoli centri che, spesso, si consumano le più violente delle storie. Perché ne esistono, di storie, capaci di restare ancorate a stereotipi ancestrali e a comportamenti da vecchi film.
Lui si chiama, perché vive ancora nei ricordi di chi resta, Marco Benzi. Marco conviveva da quattro anni con Sabrina ed i figli avuti dalla donna in un precedente matrimonio. Era il classico ragazzo della porta accanto: amava il suo lavoro, gli amici, la famiglia e Diablo, il cane dal quale non si separava mai. Sabrina era una ragazza all’apparenza tranquilla, spensierata, spesso tra le nuvole. Raccontano parenti e amici che niente avrebbe mai lasciato presagire un simile epilogo. Eppure, nella notte tra il 24 ed il 25 novembre 2017, Sabrina Amico ha scritto una delle più tristi pagine che la cronaca nera abbia mai conosciuto. Mentre Marco dormiva lo ha ucciso spaccandogli il cranio a martellate, poi ha coperto il suo volto con un panno, ha ripulito la stanza e si è fatta una doccia. A dare l’allarme è stato l’ex marito della donna che la mattina del 25 cercava di mettersi in contatto con il Benzi per andare a prendere come di consueto i bambini. Il suo telefono però risultava spento. Così l’uomo chiamava Sabrina che lucidamente affermava che Marco era partito per la Spagna. Il racconto però non convinceva l’uomo che sentendo abbaiare il cane iniziava a chiedere spiegazioni alla donna che era sempre più evasiva. Precipitatosi a casa, dopo aver notato la macchina in garage, vedeva uscire Sabrina ben vestita e truccata. La donna, con aria parca, comunicava all’ex marito di aver ucciso a martellate Marco. Non solo. Dopo essersi accorta che ancora respirava lo aveva definitivamente strozzato perché, a suo dire, sospettava che il Benzi abusasse dei suoi figli e degli animali di casa. I genitori di Marco sono venuti a conoscenza della morte del figlio da alcuni amici che avevano sentito la notizia a Telelombardia. Glielo hanno fatto vedere soltanto il giorno dopo. Sabrina Amico si trova oggi rinchiusa in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) e dovrà rimanerci per altri otto anni. Le indagini non hanno riscontrato niente di quanto denunciato ma la donna è stata riconosciuta non imputabile per vizio totale di mente.
Oggi il mio pensiero va a tutte le donne vittime di violenza, ma va anche a Katia Bertuzzi che ha perso suo figlio per mano della compagna. La violenza non è solo di genere. La violenza è violenza. E ancora una volta siamo qui per ricordarlo. Ancora una volta non possiamo permetterci di guardare da un’altra parte.