Alcuni mesi fa abbiamo pubblicato su “Anankenews” due interviste al Professor Ezio Sciarra, già Preside della Facoltà di Scienze Sociali dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara, in merito al volume delle Edizioni Universitarie Romane dal titolo “Intersezioni sociologiche sullo sviluppo”, pubblicato nell’agosto 2020 con interventi di prestigiosi autori che spaziano fra Sociologia, Politica, Diritto, Economia .
All’interno del volume occupa una posizione rilevante il saggio del Professor Ezio Sciarra dal titolo “Dalla democrazia delegativa alla democrazia partecipativa” in cui si delinea un progetto di riforma costituzionale ed economica, che, se realizzato, modificherebbe in meglio e in modo equo la nostra società.
Nell’intento di approfondire l’argomento, di rilevante portata storica e sociale, continuiamo ad intervistare il Professor Sciarra, il quale questa volta ci spiegherà in che cosa consiste la democrazia partecipativa dei beni comuni, espansione di quel ben più ampio progetto di riforma costituzionale ed economica che il Professore intende promuovere a vantaggio di ogni cittadino.
Ricordiamo in modo sintetico quanto già precedentemente scritto. La democrazia partecipativa, così come la interpreta il Professor Sciarra, va sviluppata con la partecipazione giuridica del cittadino sovrano, attraverso nuovi Organi costituzionali, come il Difensore civico, il Procuratore civico, il Foro costituzionale (di indirizzo e controllo dei rappresentanti dei cittadini nelle Camere) al fine del rispetto e dell’applicazione dei diritti costituzionali attraverso la funzione legislativa, ma anche al fine del conseguimento della partecipazione economica ai beni comuni attraverso i delegati dei cittadini negli Organi dello Stato. Un esempio è la Norvegia, in cui lo Stato sociale favorisce la migliore qualità di vita al mondo per i propri cittadini, a cui è riconosciuta la partecipazione economica alla ricchezza del petrolio e del gas nel Mare del Nord, in quanto beni comuni. In tal modo i cittadini norvegesi hanno diritto a fruire del Welfare più avanzato al mondo, secondo lo stesso riconoscimento dell’ONU.
I beni comuni sono quelli prodotti dalla natura, di cui tutti i cittadini sono azionisti in parti uguali, in quanto Comunità che gode dei prodotti del proprio territorio pubblico (ad esempio petrolio e gas, materie prime prodotte dalla natura). Tale proprietà comunitaria sui beni prodotti dalla natura non esclude la proprietà individuale che i cittadini hanno sul prodotto finale del proprio lavoro sulle materie prime.
D.1 Professore ci vuole illustrare il suo ideale di società e la sua idea di democrazia partecipativa dei beni comuni?
R.1 La mia prospettiva di democrazia della partecipazione di tutti i cittadini, liberi e uguali, all’organizzazione politica, economica, sociale, indirizzata al pieno sviluppo della persona (secondo il precetto dell’Articolo 3 della Costituzione Italiana), implica nel mio progetto la dottrina liberale dei beni comuni di Locke. Infatti Locke, padre del costituzionalismo moderno, nel “Trattato sul governo” distingue i diritti di proprietà privata e i diritti di proprietà pubblica. Per Locke ogni individuo ha diritto alla proprietà privata dei prodotti del proprio lavoro, in proporzione diversa secondo qualità e quantità del prodotto stesso. Al contempo però ogni individuo detiene anche una quota pubblica (uguale per tutti) di partecipazione economica sui prodotti della natura – ovvero sulle materie prime e sulle fonti di energia.
Materie prime e fonti di energia sono da considerare beni comuni perché messe a disposizione gratuitamente dall’ambiente naturale, indistintamente per la vita di tutti. Esse sono un dono comune di cui nessun uomo può rivendicare la proprietà privata, poiché nessun uomo (o stato o compagnia privata) ha prodotto i beni della natura col suo lavoro.
Non possiamo escludere nella cultura cristiana di Locke che agissero assonanze della protocultura ecologica francescana, tra le prime ad esprimere chiara consapevolezza dell’ambiente naturale come dono al benessere dei viventi nell’interdipendenza tra ambiente e vita umana. Gli esseri viventi dovrebbero essere interessati a giovarsi e rispettarsi l’uno con l’altro, come oggi esplicita l’ecologia religiosa di papa Francesco. Il pontefice infatti ci ricorda spesso che l’ambiente naturale è la casa comune di tutti, di cui tutti devono aver cura come dono insostituibile per la vita.
D.2 Nel Suo progetto come deve essere realizzata la gestione amministrativa pubblica dello stato sui beni comuni dei cittadini?
R.2 Lo stato non possiede la proprietà pubblica dei beni comuni, ma ha soltanto la loro rappresentanza pubblica, che amministra sul mercato nell’interesse dei cittadini, ricavando utili attraverso concessioni d’uso di materie prime ed energie primarie della natura ad imprese e lavoro produttivo. Dopo di che lo stato distribuisce, in quote eguali, a ogni singolo cittadino i dividendi e le royalties degli utili sui beni della natura, in quanto beni comuni a tutti i cittadini.
Tra i numerosi stati dei vari continenti che hanno assunto questa risoluzione politica, è esemplare il caso dello stato liberale americano dell’Alaska, il quale, a cominciare dagli anni ’80 (ogni anno ad ottobre) assegna a ciascun cittadino oltre $ 1000, come dividendo annuo di una parte degli utili generati dalla materia prima “petrolio”, di cui gli abitanti del territorio (indistintamente dai neonati, agli adulti, agli anziani, e indipendentemente dalla condizione economica) sono considerati proprietari. In Alaska ogni anno una famiglia di quattro persone riceve oltre $ 5000 come piccolo reddito di base universale, cumulabile con ogni altro reddito.
D.3 La società della democrazia partecipativa come genera ricchezza e benessere diffuso per tutti attraverso il lavoro umano privato e le materie prime pubbliche ?
R.3 Il PIL, prodotto interno lordo, misura lo sviluppo delle ricchezze e del benessere di una società e di uno stato, attraverso il valore di tutti i beni e servizi prodotti da imprese e lavoratori, i quali trasformano materie prime ed energie primarie in merci finali, scambiate nel corso dell’anno solare a prezzi di mercato che producono ricchezza.
Le materie prime della natura e il lavoro umano hanno tra loro uno stretto collegamento per la produzione della ricchezza. Difatti nella prospettiva della democrazia partecipativa dei beni comuni la ricchezza risulta il prodotto di due pilastri: il lavoro umano che trasforma le materie prime in beni finali, pilastro della ricchezza privata, e le materie prime prodotte dalla natura che sono amministrate dallo stato come bene comune, pilastri della ricchezza pubblica.
Ogni merce del PIL, comprata e venduta sul mercato dei consumi, ricava quindi due valori da corrispondere a due diversi produttori. Da un lato c’è il lavoro umano che ha diritto alla proprietà del suo lavoro di trasformazione con ampi guadagni e al riconoscimento di una quota privata; dall’altro lato vi è il pagamento della quota pubblica allo stato, che amministra le materie prime prodotte dalla natura come beni comuni di tutti i cittadini a cui trasferire il ricavato finale, avendo lo stato dato in concessione le materie prime alle imprese private con ampi utili (secondo il loro valore quotato dalle borse finanziarie).
Un esempio di questa ridistribuzione tra quota pubblica di materia prima e quota privata di lavoro umano può essere rappresentato da come deve essere ridistribuito il ricavato complessivo di energia idroelettrica venduta sul mercato.
L’energia idroelettrica è prodotta attraverso la caduta dell’acqua per gravità ; caduta che muove una turbina idroelettrica. Le componenti acqua e forza di gravità vanno in quota pubblica come beni comuni prodotti dalla natura, quindi la concessione d’uso dell’acqua di caduta da parte dello stato all’impresa idroelettrica deve essere ampiamente retribuita e distribuita in dividendi uguali a tutti i cittadini o trasformata in servizi pubblici gratuiti. Invece, essendo la turbina un prodotto tecnologico dell’ingegno dell’uomo, va in quota privata, pagata in proporzione qualitativa e quantitativa al lavoro materiale ed intellettuale privato di tutti coloro che hanno concorso alla generazione dell’elettricità con la turbina (attraverso il lavoro).
Possiamo dunque ritenere che la ricchezza del PIL va riservata per metà al lavoro del produttore umano privato, da corrispondere in maniera differenziata e in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prodotto, comunque sufficiente a garantire libertà e dignità alla vita del lavoratore e della sua famiglia (come dall’Articolo 36 della Costituzione Italiana).
Conseguentemente l’altra metà della ricchezza del PIL va riservata allo stato, per gli utili ricavati dalle concessioni dei beni comuni pubblici alle imprese private, che lavorano materie prime e fonti di energia, producendo utili che lo stato riversa a tutti i cittadini, a cui appartengono le materie e le energie della natura.
L’Articolo 43 della Costituzione italiana riconosce a materie ed energie primarie prodotte dalla natura il valore di beni comuni, quando prevede tra l’altro di riservare per legge, e in origine, a comunità di lavoratori o utenti le imprese che riguardano fonti di energia, soprattutto se di preminente interesse generale e se si riferiscono a servizi pubblici essenziali e a situazioni di monopolio.
Lo stesso Articolo 43 conforta la prospettiva dei beni comuni pubblici di democrazia partecipativa, mentre contrasta situazioni evidenti di accaparramento dominante, speculativo, oligarchico delle materie prime e fonti di energia da parte di apparati del capitalismo di stato e di compagnie multinazionali del capitalismo privato, configurando un’espropriazione illiberale contro la democrazia partecipativa dei diritti di tutti gli uomini ai prodotti della natura e del lavoro, difesi con vasta cultura internazionale dal fine giurista dei beni comuni Ugo Mattei, protagonista del referendum sull’acqua, bene comune vinto dagli italiani nel 2011.
I beni comuni possono distribuire ricchezza e benessere diffusi e partecipati per tutti, risolvendo il problema degli eccessi insostenibili delle disuguaglianze attuali, per cui l’1% più ricco della popolazione mondiale detiene maggiore ricchezza rispetto al restante 99%. Occorre recuperare il valore democratico liberale egualitario di un ampio ceto medio prevalente (con pochi ricchi e pochi poveri oscillanti vicino alla media), applicando equità economica secondo la formula di Rousseau, per cui la democrazia è il risultato di una società di persone libere e uguali, dove nessuno è così ricco da poter comperare un altro e nessuno è così povero da doversi vendere a un altro.
Come sostiene Paolo Maddalena, solido giurista, nutrito della ricca esperienza in qualità di Vicepresidente della Corte Costituzionale, occorre attuare la Costituzione soprattutto per i precetti della proprietà pubblica, per riconquistare i beni pubblici agli italiani espropriati dalle privatizzazioni.
D.4 Professore, i beni comuni possono eliminare il prelievo fiscale sui cittadini, senza ridurre le entrate dello stato destinate alla copertura delle spese pubbliche di welfare per tutti?
R.4 I beni prodotti dalla natura, come le materie prime e l’energia primaria, poiché beni appartenenti in parti uguali alla comunità dei cittadini, devono essere amministrati dallo stato per ricavare ampi utili. Tali utili derivano dalla vendita delle concessioni d’uso di materie prime ed energie alle imprese private (secondo le quotazioni di borsa) per un valore fino alla metà del PIL. L’altra metà del PIL deve essere assicurata (con rendimenti esentasse) alle imprese private e al lavoro di trasformazione delle materie ed energie primarie in merci finali, che producono la ricchezza sociale.
Con gli utili, derivanti allo stato dai beni comuni, è possibile eliminare il prelievo fiscale sui cittadini. Infatti gli ingenti utili, ricavati dallo stato attraverso le concessioni retribuite, servono ampiamente a procurare le entrate necessarie a sostenere tutte le spese previste nella legge di bilancio dello stato, sia per il suo funzionamento sia per i servizi a favore dei cittadini.
Le entrate, finora derivate da imposizioni fiscali ai cittadini, non saranno più necessarie perché sostituite dal rendimento dei beni comuni pubblici. Infatti le entrate, derivanti dalle concessioni dei beni comuni e relative a tutte le materie ed energie primarie del territorio pubblico (offerte al mercato privato produttivo secondo le quotazioni di borsa), sarebbero più che sufficienti per corrispondere a tutti i cittadini i servizi gratuiti di welfare integrale, dalla casa all’assistenza sociale per inabili e indigenti, dalla sanità alla scuola, dal lavoro agli infortuni, dalle pensioni alle invalidità, dalla malattia alla disoccupazione involontaria (Articolo 38 della Costituzione Italiana).
Assolte tutte le spese di un welfare integrale per dare i diritti costituzionali alla vita e al benessere a tutti, in caso di avanzi di bilancio è possibile anche distribuire dividendi monetari con quote uguali per ogni singolo cittadino, in virtù dei diritti di partecipazione ai dividendi sui beni comuni. Chiariamo che i servizi gratuiti di welfare integrale ad ogni cittadino sono in effetti pagati dagli stessi cittadini, ma non più mediante il prelievo fiscale, quanto sulla copertura economica degli utili dei beni comuni appartenenti ai cittadini e amministrati dallo stato per conto degli stessi cittadini. Questi ultimi, dal loro canto, preferiscono delegare allo stato l’amministrazione dei beni comuni da dare in concessione retribuita alle imprese private, perché nessuno (con la propria piccola quota) può ottenere il vantaggio competitivo che ha lo stato sul mercato, in rappresentanza di tutte le quote.
Nello stato democratico partecipativo le entrate per le spese pubbliche pervengono, senza alcuna possibilità di evasione fiscale, dalla gestione statale diretta dei beni comuni con prelievi alla fonte pubblica rappresentata dalle concessioni ai privati. Pertanto le entrate allo stato sugli utili dei beni comuni sostituiscono le entrate fiscali. La fiscalità pubblica a carico del cittadino può così cessare senza danno per la spesa pubblica, e lo stato può garantire ogni reddito esentasse per le attività economiche, sia pubbliche sia private.
Lo stato, amministratore dei beni comuni, ha anche il dovere di svolgere la funzione di regolatore dei prezzi delle merci sul mercato, a favore del potere d’acquisto dei cittadini, perché, contrattando concessioni retribuite, può aumentare o diminuire il prezzo delle materie e delle energie primarie alle imprese private, produttrici di merci.
La regolazione dei prezzi oggi sarebbe salvifico per il potere d’acquisto di tutti i cittadini, dato l’aumento esponenziale dell’inflazione e del valore delle materie prime nelle borse speculative, con ricadute insostenibili (per le famiglie e per le imprese che sono al tracollo) sulle bollette energetiche.
Gli utili dello stato, ricavati dai beni comuni naturali, provengono dalle concessioni minerarie, dalle concessioni edilizie del suolo, dalle concessioni balneari, dalle concessioni di qualsiasi bene comune prodotto dalla natura e non dall’uomo.
Nel caso delle concessioni balneari, che possiamo assumere come esempio, l’ente pubblico concede (dietro compenso) all’impresa privata balneare la spiaggia e ovviamente quanto integra la spiaggia, ossia il mare, il sole, la brezza marina etc., tutti beni prodotti dalla natura e non dall’uomo e dunque appartenenti a tutti.
I beni comuni offerti dall’ente pubblico in concessione retribuita all’impresa balneare sono offerti al godimento privato del turista pagante, che gode dei beni comuni della natura ma gode anche del lavoro privato dell’imprenditore col servizio di salvataggio, di ombrellone, di sdraio, di cabina, di pulizia della spiaggia, e così via. L’ente pubblico, per la concessione della spiaggia come bene comune pubblico, può pretendere dall’imprenditore fino a metà di quanto l’imprenditore guadagna dai turisti, e ha l’obbligo di trasformare le risorse incassate in servizi pubblici di welfare gratuito per i cittadini azionisti del bene comune. L’imprenditore privato a sua volta può guadagnare la restante metà del pagamento dei turisti, ma al netto ed esentasse, perché pagando la concessione all’ente pubblico ha già versato da parte sua quanto necessario alle spese pubbliche per fornire servizi gratuiti ai cittadini, ovvero fino al 50% dei suoi guadagni, come se avesse già pagato il suo contributo fiscale allo stato.
D.5 La democrazia partecipativa dei beni comuni contempla la piena occupazione?
R.5 Lo stato con le sue entrate e le sue spese deve provvedere all’adempimento di tutti i diritti costituzionali inviolabili della persona, specie se essenziali alla sua vita, come il prioritario diritto al lavoro per ogni cittadino (Articolo 4 della Costituzione ). Il padre del welfare moderno, William Beveridge, rettore ad Oxford, forse il più eminente esperto liberale europeo di assicurazione sociale, presentò (su incarico del governo Churchill) un piano per uscire dagli immani disastri della guerra col suo rapporto “Full Employment in a Free Society” del 1944.
Il piano di welfare, ideato da Beveridge, prevedeva piena occupazione produttiva in una società libera di mercato, in cui lo stato liberale doveva attuare nell’economia interventi di ispirazione keynesiana, con investimenti pubblici che perseguissero il fine della piena occupazione. Ogni cittadino, in verità, dovrebbe disporre di un reddito sicuro da lavoro per vivere dignitosamente. Il vantaggio della piena occupazione oltre che individuale è sociale, perché, se tutti i cittadini sono occupati e lavorano, contribuiscono al maggior sviluppo della ricchezza nazionale, che circolarmente moltiplica il benessere sociale diffuso conseguente alla liberazione di tutte le forze produttive.
Lo stato di una democrazia partecipativa ha ampie risorse da investire al fine di perseguire la piena occupazione, perché amministra tutti i beni comuni dei cittadini, i beni prodotti dalla natura, da cui è possibile ricavare risorse miliardarie, se consideriamo le categorie di materie prime e di energie primarie quotate in borsa.
Lo stato può amministrare le materie prime più rilevanti che abbiamo in natura e che lavoriamo per produrre beni finali, ricchezze del mercato finanziario nelle varie categorie, vegetali (tipiche di attività agricole, semi delle varietà primarie, frumento, mais, soia, cacao, caffè, tabacco, zucchero, oli vegetali, etc.), animali (corrispondenti alle attività di allevamento, dalle carni al latte), metalli preziosi (dall’oro al platino, dall’argento al palladio), metalli industriali (dall’alluminio al rame, dallo zinco allo stagno, dall’acciaio al nichel), legnami (dalle potature da fuoco ai legni nobili per mobili e costruzioni ), tessili (dal cotone alla seta), minerali (da quelli organici, come l’ambra, a quelli inorganici, come i diamanti).
Inoltre lo stato può amministrare le energie primarie prodotte dalla natura sia come fonti energetiche esauribili, per lo più fossili (dal carbone alla lignite, dal petrolio al gas naturale, ai combustibili nucleari,) sia come fonti energetiche rinnovabili (dall’acqua al sole, dal vento alle biomasse, dalla geotermia ai campi elettromagnetici). Essi costituiscono tutti beni primari che l’uomo non ha prodotto e rappresentano beni comuni della natura di cui tutti i cittadini sono azionisti.
Lo stato può guadagnare enormi utili come fornitore sul mercato di tutte le materie prime ed energie primarie prodotte dalla natura, necessarie a tutte le attività private produttive, le quali (attraverso il lavoro umano) trasformano materie ed energie primarie in beni e servizi finali, che, posti sul mercato come merci, rendono enormi profitti finali. Con tali proventi i privati possono retribuire lo stato che provvede a tutte le spese pubbliche, soprattutto a un welfare di sicurezza sociale integrale e gratuito, senza più porre alcun gravame fiscale ai cittadini.
Materie prime pubbliche e lavoro umano privato, tra loro correlati per la produzione di beni e servizi finali, sono i due pilastri che concorrono alla ricchezza complessiva del PIL nazionale. Dalle forniture di materie prime ed energie alle imprese private lo stato può ricavare potenzialmente fino alla metà del valore del PIL nazionale, una cifra di migliaia di miliardi da investire interamente in welfare integrale gratuito a favore dei cittadini, tra cui soprattutto la piena occupazione.
Con le sue entrate miliardarie lo stato può provvedere ad un piano di piena occupazione, assumendo tutti i cittadini maggiorenni come dipendenti pubblici, senza ricorrere alla copertura della fiscalità pubblica che aumenta il debito, ma sotto la copertura degli stessi ricavi di gestione dei beni comuni (materie prime e fonti di energia), che appartengono ai cittadini, i quali di fatto danno allo stato i loro dividendi per avere in contropartita un posto di lavoro pubblico.
Il lavoro pubblico di piena occupazione (che i cittadini finanziano allo stato con i loro diritti da concessioni d’uso dei beni comuni ai privati) è comunque più appetibile e preferibile alla riscossione dei dividendi monetari. Invero i dividendi si esauriscono presto, se non sono generati dal lavoro produttivo che trasforma le materie prime in ricchezza, da cui si generano nuovi dividendi.
I beni comuni, materie prime ed energie naturali, senza la valorizzazione del lavoro, non danno dividendi. Il lavoro dei dipendenti pubblici non sarà solo dedicato ai servizi, ma lo stato imprenditore avvierà anche la produzione di beni di impresa collocabili sul mercato, ottenendo ulteriori utili per le entrate pubbliche al fine di nuove assunzioni, divenendo moltiplicatore della ricchezza nazionale.
Ampliare la platea degli occupabili è possibile allo stato perché ormai entrano nelle catene di produzione anche le tecnologie robotiche che fanno risparmiare di due o tre volte il tempo di produzione, mentre raddoppia o triplica il profitto di impresa. Quindi è possibile (a parità di salario) adottare per i lavoratori la settimana corta di 30 ore dal lunedì al venerdì e il mese corto anche di due settimane su quattro, assumendo nuovi lavoratori sulle ore di lavoro che si liberano e retribuendo i lavoratori con gli extraprofitti consentiti dalle tecnologie robotiche agli imprenditori. Questi ultimi sono comunque favoriti perché ricavano utili esentasse che raddoppiano i loro guadagni rispetto al passato.
In tal modo i lavoratori pubblici possono aumentare di numero lavorando per meno tempo, con uno stipendio pari ad un reddito di base di livello medio, comunque sufficiente a mantenere se stessi e le loro famiglie, considerando il benessere diffuso, data la piena occupazione in cui anche il coniuge e i figli maggiorenni lavorano.
Poiché i lavoratori pubblici si troverebbero così ad avere la settimana corta e il mese corto, sono incentivati dallo stato ad integrare (dato l’ampio tempo disponibile) i loro guadagni con un lavoro privato da imprenditore o da autonomo o da dipendente, con un reddito privato cumulabile con quello pubblico.
L’incentivo al lavoro privato è promosso dallo stato che aiuta il lavoratore all’individuazione iniziale di un settore di impresa promettente per cui il lavoratore abbia competenze ed interessi. Appositamente lo stato fornisce la conseguente formazione gratuita, dando a fondo perduto il primo capitale di rischio ed anche coperture assicurative in caso di difficoltà per l’aleatorietà del mercato privato, onde poter facilmente attivare una mobilità verso altri settori.
In breve il lavoratore è collocato alla piena occupazione in ambiti distinti: da un lato in attività pubblica, dove consegue una stabile sicurezza sociale con ruolo a tempo indeterminato e con un reddito medio da lavoro garantito; dall’altro in attività privata, dove può raggiungere redditi e cariche superiori, oltre che aspettative di ascensore sociale crescente di attività creative e di responsabilità, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Il lavoratore condividerà la situazione di rischio dell’impresa e l’insicurezza del lavoro sul mercato privato competitivo ed innovativo, seppure con la copertura assicurativa di mobilità verso altro settore efficiente, in caso di insuccesso.